nuovigiorni

"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

venerdì 29 agosto 2025

Anestesia collettiva

Viviamo immersi in un tempo in cui tutto ci appare visibile, eppure nulla ci attraversa davvero. Siamo esposti – ogni giorno, ogni ora – a notizie, immagini, testimonianze di dolore. Eppure la realtà, quella viva e drammatica, non ci scuote più. La guardiamo, ma non ci guarda. Ci sfiora, ma non ci ferisce. È come se un vetro spesso ci separasse dal mondo: vediamo tutto, ma non sentiamo più niente. Non si tratta solo di indifferenza, ma di qualcosa di più profondo, più inquietante: una forma di anestesia collettiva. Un ottundimento morale che ci impedisce di provare compassione, di lasciarci interrogare dalla sofferenza dell’altro. Non siamo diventati cinici, ma stanchi. È la stanchezza, la fatica di restare umani in un tempo che ci chiede di essere efficienti, performanti, inattaccabili. Pier Paolo Pasolini aveva visto tutto questo con una lucidità dolorosa. Parlava di una “mutazione antropologica”: l’uomo nuovo del consumismo, privo di radici, scollegato da ogni legame comunitario, incapace di sentire davvero. Un uomo libero, sì – ma di una libertà svuotata. Una libertà ridotta a spazio privato, astratto, senza relazione. Non più promessa di vita piena, ma pretesa individuale, diritto senza dovere, espressione senza responsabilità. Il desiderio si è trasformato così in desiderio di consumo, le relazioni in competizione, l’amicizia in management. Il pensiero, sempre più tecno-oligarchico, ha convertito ogni respiro comunitario in agency individuale, ogni legame in branding personale. E la realtà, privata della sua densità simbolica e affettiva, diventa inconsistente. Invisibile. Se non ci tocca, semplicemente non esiste. Numeri, statistiche, breaking news. Ma senza carne, senza volto, senza tempo. A luglio, l’Unicef ha riportato che oltre 18.000 bambini palestinesi sono stati uccisi a Gaza. È un numero spaventoso. Eppure, cosa sentiamo davvero? Che cosa ci resta dentro, dopo aver letto una cifra così? Ma cosa accade a una società che non riesce più a sentire? Che ha smarrito il senso del limite, che rimuove la fragilità, che censura perfino la morte, come fosse uno scandalo? La vera posta in gioco, oggi, è la libertà. Non quella vuota e gridata, ridotta a diritto di dire qualunque cosa o a difesa dei propri confini identitari. Ma la libertà autentica. Quella che crea legami. Che riconosce l’altro. Che costruisce futuro. Una libertà che non si accontenta di essere liberi da, ma che sceglie di essere liberi per. Liberi per… cambiare le cose. Per non accettare la disuguaglianza come destino. Per abitare i conflitti invece di negarli. Per rigenerare le comunità, le istituzioni, i territori. Per dare voce a chi non ha voce. Per scegliere l’umano, ogni volta che ci viene chiesto di scegliere tra l’umano e il funzionale, tra il giusto e l’utile, tra la verità e la convenienza. Ma la libertà, per esistere, ha bisogno di relazione... Non può fiorire nell’individualismo e neppure nell’utilitarismo. L’impotenza di fronte alla realtà nasce da una condizione impaurita di isolamento: le persone in cerca di protezione si isolano, e così facendo, paradossalmente – come ricorda Robert Castel – aumentano la loro insicurezza. Un circolo vizioso che rende la persona più fragile, la rende impermeabile rispetto a ciò che succede, e depotenzia la sua capacità di azione e attivazione. La desertificazione della relazione sottrae alla società il dono. Il dono – cosa ben diversa dalla donazione – nel suo senso più profondo, è relazione. È pedagogia per riscoprire la realtà, quell’atto che rompe la solitudine, che crea comunità, che ci ricorda che siamo parte di qualcosa di più grande di noi. Il dono, come relazione, esercitato tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica, in quella economica come in quella istituzionale, è ciò che manca e che sarebbe in grado di rigenerare il rapporto con il reale, trasformando la percezione individuale in un’esperienza collettiva. Come sottolineato da Arrow (1999): «Gran parte della ricompensa derivante dalle relazioni interpersonali è intrinseca; la ricompensa, cioè, è la relazione stessa». Per vivere, e non semplicemente sopravvivere, in un tempo di anestesia morale, non basta più costruirsi una percezione della realtà: occorre avere un rapporto reale con essa. Non basta più muoversi come singoli: occorre commuoversi – nel vero senso etimologico: muoversi insieme verso… Riscoprire la nostra inquietudine e la nostra natura relazionale, come ha affermato papa Leone XIV ai giovani durante il Giubileo, diventa così non solo un atto profondamente umano, ma anche un atto politico.

Paolo Venturi, Avvenire (24/8/2025)

Canzone del giorno: La crociata dei bambini (2023) - Vinicio Capossela
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mercoledì 27 agosto 2025

Ispirazione

Chiunque dica che la creatività deriva dall’ispirazione divina ha sicuramente torto, particolarmente nel mio caso. Non scrivevo canzoni per mia moglie, per mio figlio mai nato, Dio o la patria, le scrivevo per mantenermi sano di mente.

Ray Davies, leader dei Kinks

Canzone del giorno: You Really Got Me (1964) - The Kinks
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domenica 24 agosto 2025

Il ponte che non c'è

Sono partiti oggi i lavori del primo cantiere per la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina. L’amministratore delegato Pietro Ciucci ha ricordato che è stato un anno decisivo per la ripartenza del ponte, in cui sono stati superati i problemi relativi al blocco dell’opera ed è stato approvato l’aumento di capitale della società…». Non è questo, come si potrebbe immaginare, un anticipo del futuro prossimo. Bensì un salto nel passato. È un dispaccio dell’Ansa del 23 dicembre 2009. Sedici anni fa. Quel giorno il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli inaugurò in pompa magna il cantiere dei lavori per la deviazione della linea ferroviaria che sulla costa calabrese avrebbe interferito con la costruzione del pilone di cemento armato alto 400 metri. Il clima, nel centrodestra allora al governo, come oggi, ma con una distribuzione dei pesi diversa, era euforico. Tranne che dalle parti della Lega, che nella migliore delle ipotesi giudicava il ponte «inutile». Nella peggiore (della quale si incaricavano i peones del Carroccio), addirittura un affronto, in quanto toglieva risorse al Nord che aveva un bisogno drammatico di infrastrutture. L’opposizione era furiosa e batteva sempre sullo stesso tasto, condiviso anche dalla Lega: perché spendere tanti soldi per un’opera così costosa quando in Calabria le strade sono mulattiere e la Sicilia ha tutte le ferrovie a binario unico. Senza parlare del fatto che il ponte era un progetto solo sulla carta, visto che non esisteva ancora un progetto definitivo (sarebbe arrivato nel 2011). E il progetto esecutivo, che consente l’effettiva esecuzione dei lavori, era ancora ben al di là da venire. […] Sedici anni dopo, riecco il sequel del film. Gli sceneggiatori de “Il Ponte che non c’è 2”, identici. Perfino il regista è lo stesso: Ciucci, ad della Stretto di Messina, ora come sedici anni fa. Solo il regista, Matteo Salvini, è diverso, come si conviene a un sequel che meriti rispetto. Con la differenza che il leader della Lega, lo stesso che nel 2016 manifestava pubblicamente contro l’opera, garantendo che secondo certi ingegneri non stava in piedi, ora ha cambiato idea. E siccome il saggio dice che solo i morti e gli stolti non cambiano mai idea, nessuno nel suo partito (anche se molti, moltissimi elettori storcono il naso) osa contraddirlo. Idem il resto del governo, a causa di ragioni per ognuno diverse. Il ponte era un cavallo di battaglia di Berlusconi e in Forza Italia (da cui pure nell’ottobre 2011 scoccò la scintilla che spedì l’opera in un cassetto per tre lustri) è un dogma. Mentre in Fratelli d’Italia l’evidente mancanza di entusiasmo è compensata dalla necessità di non turbare gli equilibri della maggioranza se ancora si pensa di condurre in porto la riforma del premierato tanto cara a Giorgia Meloni. Questo è il solo cemento del ponte capace di nascondere le crepe, enormi, che evidenzia la sceneggiatura del film. Prima crepa: i soldi. E non perché i soldi non ci siano. Anzi. Pur di racimolarli li hanno tolti ad altre opere. Poi, non contenti di aver già speso circa 350 milioni di risorse pubbliche per studi e progetti nonché mantenere in vita per 45 anni la società concessionaria del ponte che non c’è, e che ora ha una novantina di dipendenti con una ventina di dirigenti assai ben pagati più un discreto stuolo di consulenti, ne hanno tirati fuori altri 370. Sono serviti per assicurare al Tesoro la maggioranza del capitale della Stretto di Messina spa, evitando rogne che con altri soci pubblici possono sempre capitare e gestire la partita dalla tribuna centrale senza interferenze. I soldi, dicevamo, ci sono. Almeno è quel che dicono le ultime finanziarie. Si era partiti con 3 miliardi. Poi si è arrivati a 6. Quindi a 9. Adesso sono 13 e mezzo. Ma più realisticamente, considerando anche il generoso contributo per gli espropri, si andrebbe verso i 15. Anche se girano già in ambienti non lontani dal ministero, stime ancora più sbalorditive: c’è chi non ritiene irrealistico un conto finale, considerando gli anni di lavori e i probabili intoppi, di 22 miliardi. Tutti pagati dallo Stato, questa volta. Non come quando, sempre sedici anni fa, il ministro Matteoli garantiva: «Nemmeno un euro dai contribuenti, sarà tutto a carico dei privati».

Sergio Rizzo, lespresso.it (20/08/2025)

Canzone del giorno: Water Under the Bridge (2015) - Adele
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venerdì 22 agosto 2025

La nostra gratitudine


Noi diamo spesso per scontate proprio le cose che più meritano la nostra gratitudine. 

Cynthia Ozick, scrittrice statunitense


Canzone del giorno: I've Been  There Too (1971) - Ten Years After
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martedì 19 agosto 2025

Incontro tra predatori

Trump, 79 anni, imprenditore immobiliare, al secondo mandato come presidente degli Stati Uniti, e Putin, 72 anni, al potere come primo ministro e come presidente della Russia da 26 anni, sono due tipici rappresentanti di quella che, nel suo ultimo libro, Giuliano da Empoli ha chiamato «l'ora dei predatori». Il libro è uscito in Francia con il titolo «L'heure des prédateurs», edito da Gallimard 2025. Che cosa si siano detti ha poca importanza, perché i predatori, quando si incontrano, si annusano e misurano la forza reciproca, non scambiano idee e propositi. Possiamo però immaginare che cosa i due abbiano pensato. L'enigmatico ex funzionario del Kgb vive nel culto di Pietro il Grande e di Caterina II e vede l'espansione a Occidente come movimento naturale della Russia. Caterina II era prussiana e il suo preferito e amato generale Potëmkin era il conquistatore di quella zona dell'Ucraina che la Russia rivendica. L'imprevedibile presidente americano, abile nell'alternare parole e silenzi per tenere l'opinione pubblica sospesa, aspira più di ogni altri ad apparire e a essere il padrone del mondo, pensando, quindi, a una globalizzazione molto diversa da quella che finora si è realizzata, dove al centro sta lui e non l'Onu. Se non possiamo indovinare né quel che si sono detti, né il risultato dell'incontro, possiamo intuire quale ne sia stato l'oggetto e quale il ruolo dei protagonisti. Quanto all'oggetto, è sicuro che le due parti non abbiano solo discusso la questione ucraina. Conveniva a Trump perché questo attenua la concessione che ha fatto a un aggressore, colpito da un mandato di arresto della Corte penale internazionale, ricevendolo come un sovrano sul territorio della nazione che rappresenta. Conveniva allo zar perché serve a occultare eventuali cedimenti o arretramenti. Conveniva ad ambedue, quindi, una decisione «a pacchetto», nella quale alla questione principale se ne aggiungono altre, per raggiungere un accordo con concessioni reciproche. Quanto al ruolo di Trump, è evidente che, come gli è consueto, abbia tentato di sommarne più di uno: quello di esploratore in vista di futuri negoziati; quello di delegato dei Paesi europei, per avviare più equilibrati negoziati con gli interessati principali; quello di pacificatore, una specie di Onu monocratico, per supplire all'evidente fallimento dell'organizzazione internazionale in questa vicenda; quello di mediatore; quello di rappresentante dell'Occidente. Così è riuscito a coprire il fatto che non può presentarsi come il vicino di casa dell'aggredito, né come l'alleato, né come il giudice terzo tra due parti in conflitto tra di loro. Dunque, ha svolto un ruolo multifunzionale, così legittimando una sua veste di padrone del mondo. Altrettanto ricca la panoplia dei ruoli di Putin: ha dovuto dare legittimazione all'invasione di una nazione vicina, difendendosi dall'accusa di aggressore; rinverdire il ruolo della Russia come potenza mondiale che ha spartito la gestione del mondo con l'America; dare una giustificazione della propria espansione verso Occidente. Lo scenario aperto da questo incontro prospetta due nuove realtà, una che riguarda il mondo intero e l'altra che riguarda l'Europa. Quella che riguarda il mondo intero ha a che fare con la globalizzazione. Essa si è svolta finora mediante il multilateralismo, la cessione di compiti regolatori a organismi universali, e in forme pubblicistiche. Ora, la globalizzazione di cui è portatore il presidente degli Stati Uniti si svolge in forza del ruolo globale di una sola nazione e vede come attori globali grandi imprese private americane. Dunque, è una globalizzazione diversa, che cambia l'ordine del mondo, da multilaterale a uni-nazionale, da statale a privatistico. L'altra prospettiva riguarda l'Europa. Pietro il Grande nel '60o e Caterina II nel `70o hanno sempre guardato al modello occidentale e mirato all'espansione russa in Occidente. La politica estera della Francia, fino a meta dell'Ottocento, è stata quella di favorire la mancata unificazione germanica in funzione di cuscinetto rispetto all'avanzata russa (allora l'Ucraina non esisteva e la Polonia era debolissima). Fu Tocqueville che richiamò l'attenzione sulla «necessità di evitare il pericolo di cadere presto o tardi sotto il gioco e l'influenza diretta e irresistibile degli zar» (sono parole scritte nel 185o nei suoi «Souvenirs») e che quindi l'interesse dell'Europa fosse di favorire l'unità tedesca per impedire questa penetrazione della Russia. Oggi questo ruolo di cuscinetto si è ampliato perché la Germania è unificata e la Polonia più forte. L'Ucraina è divenuta il terreno di scontro. D'altra parte, bisogna considerare, anche se non si condividono, le parole di un noto studioso realista di scienze politiche americano, John J. Mearsheimer, secondo il quale chiunque abbia familiarità con la geopolitica avrebbe dovuto prevedere che «l'Occidente si stava infiltrando in Russia e ne minacciava gli interessi strategici. L'Ucraina, una pianura sterminata che avevano attraversato la Francia napoleonica, la Germania imperiale e la Germania nazista per attaccare la Russia vera e propria, è un cuscinetto strategico di enorme importanza per Mosca». Quasi sicuramente il presidente russo non ha letto «The Great Delusion: Liberal Dreams and International Realities», il libro del politologo americano (tradotto in italiano dalla Luiss University Press), ma altrettanto sicuramente la pensa allo stesso modo.

Sabino Cassese, Corriere della Sera (18/8/2025)

Canzone del giorno: Crossfire (1989) - Stevie Ray Vaughan and Double Trouble
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domenica 17 agosto 2025

Pippo Pop

Tu per me sei il più pop dei presentatori televisivi. Perché sei colto, con te si può parlare di musica, di letteratura, di politica, di sport. Nonostante questo, nell’iconografia codificata, sei identificato come quello della televisione leggera...

«Questa è una cosa che un po’ mi dispiace perché io mi sono imposto tanto con me stesso perché mi piace essere informato. Io i libri che escono li leggo. Mi sforzo di capire il mondo, di usare la curiosità per farlo. E quello che cerco di fare è restituire la complessità con la semplicità. Perché ho rispetto per le persone, tutte. So che chi guarda la televisione non necessariamente è laureato alla Normale. Ma non per questo bisogna rinunciare a trasmettere a tutti contenuti di qualità. Non è quello che faceva la commedia all’italiana?».

C’è stata un’occasione nella quale non ti sei sentito adeguato all’intervistato?


«Sì, è capitato. Con Umberto Eco».

A proposito: ti fa un po’ impressione il clima di odio che c’è oggi anche per fesserie, per partite di calcio, per apparizioni televisive? La gente sui social si dice delle cose orrende...


«Sui social aveva ragione Eco: “Abbiamo dato con i social l’opportunità a qualunque cretino di esprimere quello che vuole e di imbastardire questo Paese”. L’apertura dei social, sì tecnologicamente è una cosa bella, tu puoi parlare, puoi dire quello che vuoi, ma devi saper dire delle cose. Ormai abbiamo il bar sport di tutto: dall’economia ai problemi istituzionali».

Da un’intervista a Pippo Baudo rilasciata a Walter Veltroni nel 2019 per Sette (Corriere della Sera)

Canzone del giorno: Popular Song (2012) - Mika ft. Ariana Grande
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venerdì 15 agosto 2025

Stand By Me

I tempi sono duri quando le cose non hanno significato

Ho trovato una chiave sul pavimento

Può darsi che io e te non crediamo nelle cose che troviamo

dietro la porta

Allora, che ti prende?

Cantami qualcosa di nuovo

Non lo sai, il freddo, il vento e la pioggia non lo sanno?

Sembra soltanto che loro vengano e vadano via

 

Stammi vicino (nessuno sa cosa accadrà)

Stammi vicino (nessuno sa cosa accadrà)

Stammi vicino (nessuno sa cosa accadrà)

Stammi vicino, nessuno sa

Si, nessuno sa cosa accadrà


Stand by me, nobody knows the way it's gonna be

Stand by me, nobody knows the way it's gonna be

Stand by me, nobody knows the way it's gonna be

Stand by me, nobody knows

Yeah, nobody knows the way it's gonna be


Oasis, Stand By Me (1997)

Canzone del giorno: Stand By Me (1997) - Oasis
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mercoledì 13 agosto 2025

Paura della statistica

Poco dopo la diffusione degli ultimi dati sull'occupazione negli Usa, Erika McEntarfer, direttrice del Bureau of Labour Statistics (BLS) dal 2023, è stata licenziata da Donald Trump. Un fatto su cui riflettere. Come sempre, il Bls aveva pubblicato la revisione dei dati di occupazione: in maggio e giugno, circa 250mi1a nuovi occupati in meno rispetto alle stime. In luglio, invece, 73mila nuovi posti di lavoro. Anche in questo caso, perb, meno del previsto. Numeri rilevanti, ma su una base di circa 168 milioni di occupati. Perché dunque la revisione? Perché negli istituti di statistica è prassi consolidata farlo su alcuni aggregati. In questo caso, le prime stime, diffuse a due settimane dalla raccolta dei dati, si basano su un campione parziale. Mentre le stime definitive, più complete, arrivano a rilevazione terminata. La revisione non indica dunque di per sé manipolazione, ma serietà metodologica e risponde all'esigenza di equilibrio tra tempestività e affidabilità. È un concetto scontato per gli esperti di settore. A nulla è valso che il Bls sia considerato tra le agenzie di statistica più autorevoli al mondo. Né che McEntarfer fosse stata nominata con ampio consenso bipartisan, anche dal vicepresidente J.D. Vance e da Marco Rubio, l'attuale Segretario di Stato, (come riportato dal Washington Post), in ragione del suo riconosciuto rigore scientifico e del suo profilo super partes. Donald Trump l'ha accusata — senza prove — di aver manipolato i dati per fini politici, e l'ha rimossa con atto unilaterale. La decisione ha suscitato reazioni indignate nella comunità scientifica, nei media, nel mondo accademico e tra gli ex funzionari del Bls. Non solo per l'ingiustizia compiuta verso McEntarfer, ma soprattutto per il grave attacco all'indipendenza della statistica pubblica. I dati ufficiali non sono infatti semplici numeri: sono un bene pubblico. Servono a chi governa per decidere, e sono un bene prezioso per chi detiene la sovranità: il popolo elettore. Sono dunque alla base di trasparenza, responsabilità, democrazia. E non possono essere cancellati perché scomodi. La storia ci mette in guardia da queste derive. In Grecia, Andreas Georgiou, stimato direttore dell'istituto di statistica, fu perseguito per aver detto la verità sui conti pubblici del suo Paese e aver agito di conseguenza, dopo annidi manipolazioni da parte di quell'Istituto denunciati da Eurostat. In Argentina, sotto la presidenza Kirchner, si cercb di imporre una versione edulcorata dell'inflazione. Chi fece resistenza pagb con due terzi in meno di stipendio. E poi il precedente storico terribile dell'Unione Sovietica: Stalin fece giustiziare nel 1937 il capo dell'istituto statistico e il suo staff per aver diffuso i dati reali del censimento, che mostravano il crollo demografico causato dai milioni di morti dell'Holodomor del 1933. La statistica pubblica appartiene ai cittadini. Ci permette di conoscere, discutere, scegliere. La sua indipendenza è nell'interesse di tutti, a prescindere dall'orientamento politico. Ecco perché nei paesi civili gli istituti statistici e i loro dirigenti sono selezionati sulla base del merito e in modo super partes. Le democrazie si reggono su istituzioni indipendenti, sulla libertà d'informazione e sull'integrità e imparzialità dei dati. Per questo bisogna prendersi cura della statistica pubblica, investirci, proteggerne la qualità e la trasparenza. Misurare bene costa, ma non misurare o farlo male costa molto di più. Se permettiamo alla politica di distorcere, censurare o punire la statistica ufficiale, non sarà solo la verità a perdere. Saremo noi cittadini a essere privati della nostra possibilità di decidere e giudicare. Un colpo al cuore della democrazia.

Linda Laura Sabbadini, Repubblica (11/8/2025)

Canzone del giorno: Statistics (2023) - Braxton Cook
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domenica 10 agosto 2025

Paolo Villaggio in Fantozzi

Sono passati cinquant’anni da quando quell’omino buffo e strampalato da personaggio della carta stampata diventava un personaggio reale al cinema. Sì, Fantozzi, il primo film, usciva nelle sale italiane il 27 marzo 1975. Tutti questi anni mi sembrano volati, eppure c’è un mondo tra allora e adesso. Nel frattempo ci sono state le Brigate rosse, il rapimento e l’assassinio di Moro, un ex attore è diventato il presidente della nazione più importante del mondo, abbiamo vinto una coppia del mondo, anzi due, il computer è diventato un utensile del quale non possiamo più fare a meno, i telefoni di casa li conserviamo solo per digitare il numero del cellulare quando non lo troviamo, abbiamo cambiato secolo e tutte le preoccupazioni per il cosiddetto millenium bug si sono rilevate vane, ci hanno rinchiuso per un virus sconosciuto, il mondo si è globalizzato, noi siamo sempre connessi e ora c’è anche ‘intelligenza artificiale. Lui però non è cambiato. Fantozzi con le sue paure, le vessazioni dei potenti, dei capi, le sue inquietudini e le sue certezze, la sua miseria innocua, il servilismo, la fiducia ancestrale in un mondo migliore, la goffaggine e il suo modo naif di vedere tutto e tutti, lui è ancora lì. Lui, la persona reale che ha inventato Fantozzi – che era nato a cavallo fra le due guerre, che credeva nella lettura dei classici, nelle partite a pallone con i compagni nel cortile sotto casa, nelle relazioni goliardiche con gli amici di sempre – sicuramente oggi sarebbe spiazzato. Lo era già almeno una ventina di anni fa quando i primi social facevano capolino e, di nascosto, mi chiedeva di spiegarglieli perché, nonostante la sua intelligenza e curiosità, proprio non li capiva. Aveva però capito, e anche molto bene, i nostri difettucci, le nostre paure, le ansie per le piccole cose e le aveva trattate, come era nel suo stile, esasperandole. Le sue iperboli, il suo linguaggio pieno di aggettivi estremizzati oggi sono diventati un modo di parlare comune ma cinquant’anni fa, e anche prima, il libro di Fantozzi è uscito nel 1971, nessuno usava certe parole che magari erano sì nel vocabolario italiano, ma non si utilizzavano in quella maniera. Pazzesco, craniata, Megadirettore Galattico, i congiuntivi sempre sbagliati, per non parlare della sfortuna che lo perseguita come se tra tutti gli esseri viventi avesse scelto lui, proprio lui, come vittima predestinata. Ma Fantozzi alla fine sa di essere un vincente proprio perché è stato sempre un perdente e non si è mai arreso.

Elisabetta Villaggio, da Lui non è cambiato (Linus – Marzo 2025)

Canzone del giorno: Fantozzi Blues (2018) - Stefano Di Battista
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venerdì 8 agosto 2025

Maledetti noisi

Maledetti noiosi. Su tutta la terra. Che diffondono altri maledetti noiosi. Che spettacolo dell'orrore. La terra ne brulicava.


Canzone del giorno: Boredom (1969) - Procol Harum
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mercoledì 6 agosto 2025

Il Kebabgate siculo

Se della bufera giudiziaria a Milano restano i grattacieli, la hybris dello skyline, quella in Sicilia – terremotando la politica – lascia le briciole unte del kebab. Sul sedile di un’auto blu presidenziale, manco a dirlo. I reati, sulla carta, si assomigliano: corruzione impropria, peculato d’uso e truffa. E’ l’ambizione che cambia. Non è infatti una questione penale. E nemmeno politica. Qui il problema è antropologico. A Milano i magistrati indagano su assessori, immobiliaristi, planimetrie, metri cubi e skyline. La corruzione, se c’è stata, era finalizzata a costruire. A fare qualcosa. L’indagine siciliana invece coinvolge sette persone, tra cui il presidente dell’Assemblea regionale Gaetano Galvagno, con accuse che vanno dal peculato alla corruzione impropria. Il cuore del caso sono eventi come “Un Magico Natale”, “La Sicilia per le donne” e “Donna, economia e potere”, per i quali sarebbero stati promessi posti e incarichi retribuiti in cambio di contributi pubblici. Il tutto arricchito da sessanta viaggi con l’Audi A6 di servizio del presidente Galvagno per usi privati: spese, spostamenti per amici, parenti, collaboratori e snack interculturali – il kebab, appunto – con patatine fritte. A voler essere maligni – o solo concreti – sarebbe stato quasi rassicurante se l’inchiesta siciliana avesse riguardato la corruzione per aver posato, che so, un pilone del Ponte sullo Stretto. Sempre un reato, ma almeno con un volume, un peso specifico, un tentativo di futuro. Invece niente: solo viaggi, eventi, inutili consulenze e spuntini sovvenzionati. Il paesaggio siciliano, nel frattempo, è bloccato su un’inquadratura fissa. Come se qualcuno avesse messo in pausa l’isola negli anni Ottanta e poi perso il telecomando. L’autostrada per Gela è l’unica al mondo che porta il nome di una città nella quale non arriva. Un’infrastruttura con la vocazione teatrale dell’incompiuto: parte, ma non conclude. Al punto che l’inchiesta di Palermo, a oggi, con i sessanta viaggi dell’Audi A6 del presidente dell’Assemblea regionale, di fatto ha prodotto uno dei pochi itinerari viabili della regione. Il resto non si muove neanche sotto indagine. Il centro direzionale di Catania è lì da vent’anni, vandalizzato e immobile, come una Pompei senza eruzione. Le terme di Sciacca stanno chiuse in attesa di un restauro che somiglia a una mummificazione idrica. E insomma a Milano il possibile reato è verticale: grattacieli, skyline, planimetrie che si allungano come le ombre al tramonto. A Palermo è orizzontale: patatine fritte, sorelle da accompagnare, fondazioni che si autocelebrano in convegni con titoli da convention motivazionale. Sicché, come ben si capisce, tra il caso milanese e quello palermitano, la differenza più che penale è antropologica. Beppe Sala siede con le gambe accavallate, circondato da piante tropicali, calzini arcobaleno e riviste di architettura. Galvagno ha il nodo della cravatta largo come un panino da Autogrill, lo smartphone sempre in mano, la portavoce che in un’intercettazione inaugura lo stile con un disinvolto: “Amore, iniziamo a fare lobby”. A Milano si discute con Boeri. A Palermo con il dj. Lì si manovra su cubicoli e volumetrie, qui su rimborsi e missioni. L’urbanistica lombarda sale verso il cielo, quella siciliana gira in tondo.

Salvatore Merlo, Il Foglio (2/8/2025)

Canzone del giorno: Sicilia Bedda (2003) - Roy Paci & Aretuska
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lunedì 4 agosto 2025

Realtà senza cuore

Partiamo dai numeri: quando legge le cifre dei morti a Gaza, lei cosa pensa?

«Sto male. Anche se so che quei numeri passano attraverso il controllo di Hamas e che Israele non può essere l’unico colpevole di tutte le atrocità a cui assistiamo. Nonostante ciò, leggere in un giornale o ascoltare nelle conversazioni con gli amici in Europa l’accostamento delle parole “Israele” e “fame”; farlo partendo dalla nostra Storia, dalla nostra presunta sensibilità alle sofferenze dell’umanità, dalla responsabilità morale che abbiamo sempre detto di avere verso ogni essere umano e non soltanto verso gli ebrei… tutto questo è devastante. E mi manda in confusione: non dal punto di vista morale, ma personale. Mi chiedo: come siamo potuti arrivare a questo punto? A essere accusati di genocidio? Anche solo pronunciare questa parola, “genocidio”, in riferimento a Israele, al popolo ebraico: basterebbe questo, il fatto che ci sia questo accostamento, per dire che ci sta succedendo qualcosa di molto brutto. Una volta un giudice della Corte suprema israeliana ha detto che il potere corrompe, e che il potere assoluto corrompe in modo assoluto. Ed ecco, ci è successo: l’Occupazione ci ha corrotto. Io sono assolutamente convinto del fatto che la maledizione di Israele sia nata con l’Occupazione dei territori palestinesi nel 1967. Forse la gente è stanca di sentirne parlare, ma è così. Siamo diventati molto forti dal punto di vista militare e siamo caduti nella tentazione generata dal nostro potere assoluto e dall’idea che possiamo fare tutto».

Ha usato la parola proibita: “genocidio”. In un articolo uscito qualche giorno fa su Haaretz , la giurista israeliana Orit Kamir ha definito quello che sta accadendo a Gaza “un tradimento delle vittime dell’Olocausto”. Sul New York Times , lo storico israeliano Omer Bartov ha scritto: “Studio i genocidi, sono in grado di riconoscerne uno quando lo vedo. A Gaza è in corso un genocidio”. Lei è d’accordo?

«Per anni ho rifiutato di utilizzare questa parola: “genocidio”. Ma adesso non posso trattenermi dall’usarla, dopo quello che ho letto sui giornali, dopo le immagini che ho visto e dopo aver parlato con persone che sono state lì. Ma vede, questa parola serve principalmente per dare una definizione o per fini giuridici: io invece voglio parlare come un essere umano che è nato dentro questo conflitto e ha avuto l’intera esistenza devastata dall’Occupazione e dalla guerra. Voglio parlare come una persona che ha fatto tutto quello che poteva per non arrivare a chiamare Israele uno Stato genocida. E ora, con immenso dolore e con il cuore spezzato, devo constatare che sta accadendo di fronte ai miei occhi. “Genocidio”. È una parola valanga: una volta che la pronunci, non fa che crescere, come una valanga appunto. E porta ancora più distruzione e più sofferenza». […]

Perché non ci sono milioni di persone in strada in Israele per fermare tutto questo? La fame, le stragi… Perché in piazza c’è sempre, solo, una minoranza del Paese?

«Perché non vedere è più facile. E arrendersi alla paura e all’odio è semplicissimo. Ancora di più dopo il 7 ottobre: lei era qui in quei giorni, può capire quando dico che è stato orribile, tanta gente ancora non capisce cosa abbia significato per noi. Tante persone che conosco, da quel giorno hanno abbandonato i nostri comuni valori di sinistra, hanno ceduto alla paura; e improvvisamente la loro vita è diventata più facile, si sono sentiti accolti dalla maggioranza, non hanno più avuto bisogno di pensare. Senza capire che più cedi alla paura, più sei isolato e odiato al di fuori di Israele. La vita è la storia che ci raccontiamo: vale per tutti. Ma quando sei Israele, circondato da vicini che non ti vogliono in questa regione, come la Siria, e cominci a perdere l’appoggio dell’Europa, l’isolamento cresce e tu ti ritrovi in una trappola sempre più profonda, da cui uscire è complicato. Anzi, da cui rischi di non riuscire a uscire». […]

Alla fine di questa conversazione, vorrei chiederle di rispondere a chi – sono tanti – dice che voi intellettuali israeliani non avete detto o fatto abbastanza per fermare quello che succede a Gaza.

«Io credo che prendere di mira chi ha combattuto l’Occupazione per quasi 60 anni, e che in questa battaglia ha investito la maggior parte della propria vita e della propria carriera, sia ingiusto. Quando è iniziata questa guerra eravamo in un totale stato di disperazione per aver perso tutto quello in cui avevamo creduto e amato: credo che la nostra reazione lenta sia stata naturale e comprensibile. Ci abbiamo messo del tempo: a capire cosa sentivamo e cosa pensavamo e poi a trovare le parole per dirlo. Chi cercava una reazione in tempo reale doveva cercarla da un’altra parte: parlo per me e per quelli che vedo alle manifestazioni ogni settimana, da anni ormai. Il nostro cuore è nel posto giusto: e batte in una realtà che è senza cuore».

David Grossman, conversazione con Francesca Caferri, Repubblica (1/8/2025)

Canzone del giorno: Zombie (1994) - The Cranberries
Clicca e ascoltaZombie....

sabato 2 agosto 2025

Tappeto

Rolli, da google.it













Canzone del giorno: Under The Rug (2015) - The View
Clicca e ascoltaUnder The Rug....

venerdì 1 agosto 2025

Playlist Luglio 2025

      1.      The Doors, Peace Frog – (Morrison Hotel – 1970) – Para pacem

2.      Wire, Point Of Collapse – (The Ideal Copy – 1987) – Crollo del diritoo internazionale

3.      Suzanne Vega, Speakers’ Corner – (Flying with Angels – 2025) – Speakers’ Corner

4.      Willie Nelson, Across The Bordeline – (Across The Borderline – 1993) – Ritirarsi

5.      Arctic Monkeys, Old Yellow Bricks – (Favourite Worst Nightmare – 2007) – Mattoni

6.      Eduardo De Crescenzo, Naviganti – (La vita è un’altra – 2002) – Tuffi e navigazioni

7.      Goldfinger, Superman – (Hang-ups – 1997) – Superman

8.      Rino Gaetano, Escluso il cane – (Aida – 1977) – Canazzi

9.      Tanita Tikaram, Deliver Me – (Everybody’s Angel – 1991) – Gabbia cognitiva

10.   Prince, Kiss – (Parade – 1986) – Kiss Cam

11.   Dido, Quiet Times – (Safe Tripe Home – 2008) – Anima sapiens

12.   Beth Hart, Without Words In The Way – (War in My Mind – 2019) – Gaza, parole a perdere

     13.   Keb’ Mo ft. Robbie Brooks Moore, Beautiful Music – (Oklahoma – 2019) – Beautiful Music