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"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

lunedì 4 agosto 2025

Realtà senza cuore

Partiamo dai numeri: quando legge le cifre dei morti a Gaza, lei cosa pensa?

«Sto male. Anche se so che quei numeri passano attraverso il controllo di Hamas e che Israele non può essere l’unico colpevole di tutte le atrocità a cui assistiamo. Nonostante ciò, leggere in un giornale o ascoltare nelle conversazioni con gli amici in Europa l’accostamento delle parole “Israele” e “fame”; farlo partendo dalla nostra Storia, dalla nostra presunta sensibilità alle sofferenze dell’umanità, dalla responsabilità morale che abbiamo sempre detto di avere verso ogni essere umano e non soltanto verso gli ebrei… tutto questo è devastante. E mi manda in confusione: non dal punto di vista morale, ma personale. Mi chiedo: come siamo potuti arrivare a questo punto? A essere accusati di genocidio? Anche solo pronunciare questa parola, “genocidio”, in riferimento a Israele, al popolo ebraico: basterebbe questo, il fatto che ci sia questo accostamento, per dire che ci sta succedendo qualcosa di molto brutto. Una volta un giudice della Corte suprema israeliana ha detto che il potere corrompe, e che il potere assoluto corrompe in modo assoluto. Ed ecco, ci è successo: l’Occupazione ci ha corrotto. Io sono assolutamente convinto del fatto che la maledizione di Israele sia nata con l’Occupazione dei territori palestinesi nel 1967. Forse la gente è stanca di sentirne parlare, ma è così. Siamo diventati molto forti dal punto di vista militare e siamo caduti nella tentazione generata dal nostro potere assoluto e dall’idea che possiamo fare tutto».

Ha usato la parola proibita: “genocidio”. In un articolo uscito qualche giorno fa su Haaretz , la giurista israeliana Orit Kamir ha definito quello che sta accadendo a Gaza “un tradimento delle vittime dell’Olocausto”. Sul New York Times , lo storico israeliano Omer Bartov ha scritto: “Studio i genocidi, sono in grado di riconoscerne uno quando lo vedo. A Gaza è in corso un genocidio”. Lei è d’accordo?

«Per anni ho rifiutato di utilizzare questa parola: “genocidio”. Ma adesso non posso trattenermi dall’usarla, dopo quello che ho letto sui giornali, dopo le immagini che ho visto e dopo aver parlato con persone che sono state lì. Ma vede, questa parola serve principalmente per dare una definizione o per fini giuridici: io invece voglio parlare come un essere umano che è nato dentro questo conflitto e ha avuto l’intera esistenza devastata dall’Occupazione e dalla guerra. Voglio parlare come una persona che ha fatto tutto quello che poteva per non arrivare a chiamare Israele uno Stato genocida. E ora, con immenso dolore e con il cuore spezzato, devo constatare che sta accadendo di fronte ai miei occhi. “Genocidio”. È una parola valanga: una volta che la pronunci, non fa che crescere, come una valanga appunto. E porta ancora più distruzione e più sofferenza». […]

Perché non ci sono milioni di persone in strada in Israele per fermare tutto questo? La fame, le stragi… Perché in piazza c’è sempre, solo, una minoranza del Paese?

«Perché non vedere è più facile. E arrendersi alla paura e all’odio è semplicissimo. Ancora di più dopo il 7 ottobre: lei era qui in quei giorni, può capire quando dico che è stato orribile, tanta gente ancora non capisce cosa abbia significato per noi. Tante persone che conosco, da quel giorno hanno abbandonato i nostri comuni valori di sinistra, hanno ceduto alla paura; e improvvisamente la loro vita è diventata più facile, si sono sentiti accolti dalla maggioranza, non hanno più avuto bisogno di pensare. Senza capire che più cedi alla paura, più sei isolato e odiato al di fuori di Israele. La vita è la storia che ci raccontiamo: vale per tutti. Ma quando sei Israele, circondato da vicini che non ti vogliono in questa regione, come la Siria, e cominci a perdere l’appoggio dell’Europa, l’isolamento cresce e tu ti ritrovi in una trappola sempre più profonda, da cui uscire è complicato. Anzi, da cui rischi di non riuscire a uscire». […]

Alla fine di questa conversazione, vorrei chiederle di rispondere a chi – sono tanti – dice che voi intellettuali israeliani non avete detto o fatto abbastanza per fermare quello che succede a Gaza.

«Io credo che prendere di mira chi ha combattuto l’Occupazione per quasi 60 anni, e che in questa battaglia ha investito la maggior parte della propria vita e della propria carriera, sia ingiusto. Quando è iniziata questa guerra eravamo in un totale stato di disperazione per aver perso tutto quello in cui avevamo creduto e amato: credo che la nostra reazione lenta sia stata naturale e comprensibile. Ci abbiamo messo del tempo: a capire cosa sentivamo e cosa pensavamo e poi a trovare le parole per dirlo. Chi cercava una reazione in tempo reale doveva cercarla da un’altra parte: parlo per me e per quelli che vedo alle manifestazioni ogni settimana, da anni ormai. Il nostro cuore è nel posto giusto: e batte in una realtà che è senza cuore».

David Grossman, conversazione con Francesca Caferri, Repubblica (1/8/2025)

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