Partiamo dai numeri: quando legge le cifre dei morti a Gaza, lei cosa pensa?
«Sto male. Anche se so che quei numeri
passano attraverso il controllo di Hamas e che Israele non può essere l’unico
colpevole di tutte le atrocità a cui assistiamo. Nonostante ciò, leggere in un
giornale o ascoltare nelle conversazioni con gli amici in Europa l’accostamento
delle parole “Israele” e “fame”; farlo partendo dalla nostra Storia, dalla
nostra presunta sensibilità alle sofferenze dell’umanità, dalla responsabilità
morale che abbiamo sempre detto di avere verso ogni essere umano e non soltanto
verso gli ebrei… tutto questo è devastante. E mi manda in confusione: non dal
punto di vista morale, ma personale. Mi chiedo: come siamo potuti arrivare a
questo punto? A essere accusati di genocidio? Anche solo pronunciare questa
parola, “genocidio”, in riferimento a Israele, al popolo ebraico: basterebbe
questo, il fatto che ci sia questo accostamento, per dire che ci sta succedendo
qualcosa di molto brutto. Una volta un giudice della Corte suprema israeliana
ha detto che il potere corrompe, e che il potere assoluto corrompe in modo
assoluto. Ed ecco, ci è successo: l’Occupazione ci ha corrotto. Io sono
assolutamente convinto del fatto che la maledizione di Israele sia nata con
l’Occupazione dei territori palestinesi nel 1967. Forse la gente è stanca di sentirne
parlare, ma è così. Siamo diventati molto forti dal punto di vista militare e
siamo caduti nella tentazione generata dal nostro potere assoluto e dall’idea
che possiamo fare tutto».
Ha usato la parola proibita: “genocidio”.
In un articolo uscito qualche giorno fa su Haaretz , la giurista israeliana
Orit Kamir ha definito quello che sta accadendo a Gaza “un tradimento delle
vittime dell’Olocausto”. Sul New York Times , lo storico israeliano Omer Bartov
ha scritto: “Studio i genocidi, sono in grado di riconoscerne uno quando lo
vedo. A Gaza è in corso un genocidio”. Lei è d’accordo?
«Per anni ho rifiutato di utilizzare questa
parola: “genocidio”. Ma adesso non posso trattenermi dall’usarla, dopo quello
che ho letto sui giornali, dopo le immagini che ho visto e dopo aver parlato
con persone che sono state lì. Ma vede, questa parola serve principalmente per
dare una definizione o per fini giuridici: io invece voglio parlare come un
essere umano che è nato dentro questo conflitto e ha avuto l’intera esistenza
devastata dall’Occupazione e dalla guerra. Voglio parlare come una persona che
ha fatto tutto quello che poteva per non arrivare a chiamare Israele uno Stato
genocida. E ora, con immenso dolore e con il cuore spezzato, devo constatare
che sta accadendo di fronte ai miei occhi. “Genocidio”. È una parola valanga:
una volta che la pronunci, non fa che crescere, come una valanga appunto. E
porta ancora più distruzione e più sofferenza». […]
Perché non ci sono milioni di persone in
strada in Israele per fermare tutto questo? La fame, le stragi… Perché in
piazza c’è sempre, solo, una minoranza del Paese?
«Perché non vedere è più facile. E
arrendersi alla paura e all’odio è semplicissimo. Ancora di più dopo il 7
ottobre: lei era qui in quei giorni, può capire quando dico che è stato
orribile, tanta gente ancora non capisce cosa abbia significato per noi. Tante
persone che conosco, da quel giorno hanno abbandonato i nostri comuni valori di
sinistra, hanno ceduto alla paura; e improvvisamente la loro vita è diventata
più facile, si sono sentiti accolti dalla maggioranza, non hanno più avuto
bisogno di pensare. Senza capire che più cedi alla paura, più sei isolato e
odiato al di fuori di Israele. La vita è la storia che ci raccontiamo: vale per
tutti. Ma quando sei Israele, circondato da vicini che non ti vogliono in
questa regione, come la Siria, e cominci a perdere l’appoggio dell’Europa,
l’isolamento cresce e tu ti ritrovi in una trappola sempre più profonda, da cui
uscire è complicato. Anzi, da cui rischi di non riuscire a uscire». […]
Alla fine di questa conversazione, vorrei
chiederle di rispondere a chi – sono tanti – dice che voi intellettuali
israeliani non avete detto o fatto abbastanza per fermare quello che succede a
Gaza.
«Io credo che prendere di mira chi ha
combattuto l’Occupazione per quasi 60 anni, e che in questa battaglia ha
investito la maggior parte della propria vita e della propria carriera, sia
ingiusto. Quando è iniziata questa guerra eravamo in un totale stato di
disperazione per aver perso tutto quello in cui avevamo creduto e amato: credo
che la nostra reazione lenta sia stata naturale e comprensibile. Ci abbiamo
messo del tempo: a capire cosa sentivamo e cosa pensavamo e poi a trovare le
parole per dirlo. Chi cercava una reazione in tempo reale doveva cercarla da
un’altra parte: parlo per me e per quelli che vedo alle manifestazioni ogni
settimana, da anni ormai. Il nostro cuore è nel posto giusto: e batte in una
realtà che è senza cuore».
David Grossman, conversazione con Francesca Caferri, Repubblica (1/8/2025)
