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"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

domenica 29 agosto 2021

Contractor

La discussione sul perché della sconfitta Usa e occidentale in Afghanistan si è concentrata per intero sulla possibilità o impossibilità (ovvero sulla liceità o illiceità) di trapiantare la democrazia in un Paese di cultura non occidentale, e di farlo mediante la guerra. Non si è discusso per niente, invece, di un’altra questione che a me sembra ancora più importante, e cioèè possibile tentare una simile impresa con un esercito come quello degli Stati Uniti? Una domanda elusa probabilmente perché ne implica immediatamente un paio di altre che l’opinione pubblica occidentale, cioè noi tutti, non abbiamo il coraggio di porci, forse proprio perché conosciamo fin troppo bene le risposte: sono ancora in grado le nostre società di fare la guerra? Di sostenere psicologicamente l’urto terribile di una dimensione per così dire volontaria della morte? Siamo noi ancora capaci di accettare l’eventualità di dare o ricevere consapevolmente la morte, così come da sempre vuol dire «fare la guerra»? Domande cruciali perché è dalla risposta ad esse che dipende il tipo di strumento militare che si mette in campo, il suo modo di combattere e di occupare un Paese, e alla fine il risultato politico della guerra. Risultato politico che è l’unico che importa, dal momento che, come è evidente, la pura e semplice eliminazione fisica dell’avversario ne costituisce solo una premessa. Proprio considerando questo nodo di problemi si può dire che forse il primo motivo per cui gli Usa hanno clamorosamente fallito l’obiettivo di dar vita in Afghanistan ad un abbozzo di regime democratico sia stato per l’appunto il tipo di esercito che essi hanno schierato. Si è trattato di qualcosa che più che a un esercito tradizionalmente inteso assomigliava in realtà a un’armata mista di soldati regolari e di mercenari, in cui il ruolo di quest’ultimi era svolto dai cosiddetti contractor. Utilizzati dagli Stati Uniti a partire dagli anni ’90 in tutti i teatri di operazione (dai Balcani all’Irak) i contractor sono individui assunti da ditte private le quali hanno stipulato appositi contratti con il Pentagono (attualmente il numero di tali contratti è di alcune migliaia) per la fornitura di personale da utilizzare in operazioni belliche con compiti di supporto logistico di ogni tipo, di pianificazione strategica, protezione di impianti, ma anche in operazioni tattiche di combattimento. […]…sono compatibili o no la fine dell’esercito nazionale e la sua sostituzione con un esercito di specialisti e di mercenari, con una guerra che si pone obiettivi ideologici forti, intrisi di una carica valoriale, come è evidentemente una guerra «per portare la democrazia»? Ne dubito assai. Una guerra del genere, infatti, è credibile — e per riuscire essa deve essere credibile e apparire tale innanzi tutto agli occhi della popolazione a cui si dice di voler portare la libertà — solo se il Paese che decide di iniziarla vi impegna realmente tutto se stesso, cioè il proprio popolo, e questo mostra di aderirvi partecipando in armi, rischiando cioè la vita. Perché a dispetto di ogni mutamento ci sono cose che non cambiano e che valgono sotto tutti i cieli, ed una di queste è che solamente la disponibilità a mettere in gioco la nostra esistenza costituisce la prova indiscutibile della verità delle intenzioni che ci animano, della verità che attribuiamo ai nostri princìpi. E solo un esercito nazionale così motivato può occupare un territorio ostile e vinto senza trasformarlo in una bisca o in un mercato, come è stato invece il caso dell’Afghanistan. Solo un esercito di popolo può sperare di conquistare cuore e mente di qualcuno. Con un’armata di specialisti e di mercenari si possono fare al massimo operazioni di polizia; e anche quelle si finisce inevitabilmente per perderle nella maniera più rovinosa se ci si ostina a farle passare per qualcos’altro. Così come infatti sta ormai accadendo da molto tempo agli Stati Uniti e con loro all’intero Occidente. A noi tutti, convinti che in realtà non ci sia nulla per cui valga veramente la pena di morire, e che manchiamo perfino del coraggio di dircelo.

Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera (28/8/2021)

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