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"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

venerdì 7 febbraio 2020

Suicidi

Le ragioni che conducono una persona a compiere un gesto radicale come il suicidio sono sempre talmente imperscrutabili che non autorizzano nessuno ad avanzare ipotesi né, tantomeno, a esprimere pareri. Impossibile dire se c’è uno stringente rapporto di causa-effetto fra la tragica decisione del vigile e la valanga di insulti che lo ha travolto sui social da qualche giorno. Semmai ciò su cui non si può — anzi non si deve — tacere è l’insopportabile violenza con cui i social hanno iniziato e poi continuato a vomitare improperi anche dopo le pubbliche scuse. Del resto, parlare dei social come fossero entità astratte rischia di alleviare la responsabilità dei singoli individui che, certo esaltati e autoalimentati dal delirio collettivo, si godono l’ebbrezza di saltare sul carro urlante della calunnia e dell’offesa indiscriminata: naturalmente ciascuno ben nascosto (e protetto) dietro la maschera dell’anonimato.
E dietro il pretesto di una giusta causa: la difesa del debole (nella fattispecie il disabile cui è stato sottratto, a quanto pare per sbaglio, lo spazio del parcheggio), al punto da affossare il «colpevole» senza pietà e senza neanche concedergli il beneficio delle scuse. Ma non c’è giusta causa più ingiusta se non si limita alla critica e si rovescia in furore. Siamo troppo abituati alla protervia di chi non ammetterebbe mai di aver sbagliato da non riuscire a distinguere tra un oltraggio prepotente e un sincero pentimento? Sempre più di fronte all’arrembaggio vile e cieco dei social — tra menzogne e fango — viene voglia di seguire l’esempio di Stephen King, il re dell’horror che, non sopportando più l’horror di Facebook, ha deciso di salutare tutti e sottrarsi.

Paolo Di Stefano, Corriere della Sera (5/2/2020)

Canzone del giorno: Fear (1989) - Lenny Kravitz
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