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"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

sabato 19 ottobre 2013

Dispendiosa

Fra i tanti commenti dedicati alle ultime vicende che coinvolgono l'Alitalia, l'editoriale di Francesco Giavazzi, sul Corriere della Sera di domenica scorsa, merita una menzione, tanto per cominciare, per la chiarezza dell'incipit: "Se Alitalia fosse un’azienda normale dovrebbe chiedere l’amministrazione straordinaria".
Se poi si tiene conto che l'intervento non é stato scritto da un qualunquista sprovveduto ovvero da un contestatore sovversivo bensì da un economista d'ispirazione liberale (nonché docente universitario alla Bocconi!), diviene ancora più interessante il proseguo dello scritto.
Giavazzi in maniera esplicita sostiene che: "L'errore più grave compiuto dal governo non è aver fatto entrare le Poste in Alitalia: è aver salvato i vecchi azionisti. Cinque anni fa venti imprenditori (Pirelli, Benetton, Marcegaglia, Colaninno, Caltagirone Bellavista, Riva e tanti altri) insieme ad Air France e Banca Intesa aderirono al progetto Passera-Berlusconi investendo in un'azienda lontana dalle loro attività principali. Forse lo fecero perché si aspettavano qualche favore da parte del governo (allora guidato da Silvio Berlusconi) e qualche linea di credito da Banca Intesa (allora guidata da Corrado Passera)”.
Si pone poi una domanda che in tanti si pongono: "Come può nascere una classe di veri imprenditori se ogni volta che si dimostrano incapaci lo Stato li salva? O meglio, li salva se sono grandi, li lascia fallire, magari non pagando i propri debiti, se sono piccoli".
Secondo l'economista la situazione rischia di avviarsi verso percorsi poco trasparenti, sopratutto alla luce del sacrosanto principio di responsabilità: "La vicenda Alitalia è l'ennesima pessima prova del nostro capitalismo. Ancora una volta ha prevalso il rapporto malsano fra politica e imprese. Una concezione che considera lo Stato un prestatore di ultima istanza cui rivolgersi prima del fallimento e della catastrofe. Ancora una volta viene meno il principio di responsabilità cui ci si dovrebbe attenere in un Paese civile. Speriamo solo di non dover ripetere queste parole amare fra qualche settimana, commentando l'acquisto da parte dello Stato della parte più rilevante di Telecom Italia (la rete fissa), un'impresa che successive generazioni di imprenditori e di banche (in alcuni casi gli stessi della vicenda Alitalia) hanno solamente caricato di debiti".


Canzone del giorno:  You're Too Expansive For Me (2010) - Skunk Anansie
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Le relazioni dispendiose. FRANCESCO GIAVAZZI

Corriere della Sera del 13 ott 2013

Se Alitalia fosse un'azienda normale dovrebbe chiedere l'amministrazione straordinaria. Per arrivare a Natale ha bisogno di 500 milioni, senza contare i nuovi investimenti, in assenza dei quali fra sei mesi saremmo da capo. Poiché gli attuali azionisti non intendono metterceli, almeno non tutti, il rischio di non poter approvare il bilancio 2013 rimane concreto.
Così accadde per Swissair, la compagnia di bandiera svizzera, nel 2002, e la belga Sabena nel 2001. Nel giro di qualche settimana però le rotte abbandonate furono sostituite da altre compagnie: a Zurigo Lufthansa creò Swiss, a Bruxelles Virgin creò Brussels Air. E i vecchi azionisti andarono a casa. Non si racconti la storiella dei collegamenti con le isole: ieri mattina fra le 6 e le 14 dall'aeroporto di Catania sono decollati, per destinazioni italiane ed europee, 20 voli (esclusi quelli di Alitalia e AirOne).
L'errore più grave compiuto dal governo non è aver fatto entrare le Poste in Alitalia: è aver salvato i vecchi azionisti. Cinque anni fa venti imprenditori (Pirelli, Benetton, Marcegaglia, Colaninno, Caltagirone Bellavista, Riva e tanti altri) insieme ad Air France e Banca Intesa aderirono al progetto Passera-Berlusconi investendo in un'azienda lontana dalle loro attività principali. Forse lo fecero perché si aspettavano qualche favore da parte del governo (allora guidato da Silvio Berlusconi) e qualche linea di credito da Banca Intesa (allora guidata da Corrado Passera). Ci fu anche chi non aderì, come Luxottica, Prada, Brevini, aziende che vivono di esportazioni e non hanno nulla da chiedere né al governo né a Banca Intesa.
Non sappiamo se favori o linee di credito siano arrivati. Ma l'investimento fatto da quei venti imprenditori è andato male (forse non per colpa loro), e il capitale investito va azzerato.
Se poi lo Stato decidesse di intervenire, ciò deve avvenire in modo trasparente. Durante l'ultima crisi, l'amministrazione Obama è entrata in banche, assicurazioni, persino case automobilistiche. Ma attraverso strumenti chiari, che ne caratterizzavano l'assoluta temporaneità. Invece, nell'ingresso delle Poste in Alitalia si mescolano intervento finanziario e piano industriale. Si dà luogo a una confusione che domani, se l'operazione fallisse, renderebbe meno chiare le responsabilità. (Appaiono poi singolari e risibili le precisazioni sul fatto che le Poste non useranno i denari dei correntisti: l'attività della società è fondata sui depositi postali degli italiani).
Come può nascere una classe di veri imprenditori se ogni volta che si dimostrano incapaci lo Stato li salva? O meglio, li salva se sono grandi, li lascia fallire, magari non pagando i propri debiti, se sono piccoli.
«Anche il capitalismo privato nella Prima Repubblica non ha funzionato?». A questa domanda l'avvocato Agnelli rispondeva ( Corriere , 20 febbraio 1996): «Certamente. Diciamo che gli anticorpi non hanno funzionato. Ma dovevamo scendere a patti con i politici e con l'impresa pubblica. Se in Italia, dopo cinquant'anni, la Fiat non è finita all'Iri o in mani estere è un miracolo».
Non si è trattato di un miracolo, bensì della degenerazione di un rapporto tra Stato e imprenditori privati che in Italia ha radici lontane. Ricordando la figura di Alberto Beneduce, primo presidente dell'Iri (l'Istituto per la ricostruzione industriale), Marcello De Cecco scrive (L'economia di Lucignolo , Donzelli, 2000): «Circondando le banche e i grandi gruppi industriali che da esse dipendevano di un cordone sanitario rappresentato dagli istituti di credito speciale, riuscì a Beneduce di spegnere le fiamme del grande incendio dei primi anni Trenta operando una riforma delle nostre strutture finanziarie che ha dominato la vita economica per i sessant'anni successivi. Si creò così un sistema assai simile a quello dei Paesi del socialismo reale. Alla finanza basata sul rischio si sostituì quella basata sulla garanzia statale». Per decenni, quando un privato falliva comprava lo Stato, solo di rado un concorrente estero. Ma soprattutto lo Stato non interferiva con le regole del mercato in cui si scambiano la proprietà e il controllo delle aziende, rinunciando a imporvi maggiore trasparenza e concorrenza.
La vicenda Alitalia è l'ennesima pessima prova del nostro capitalismo. Ancora una volta ha prevalso il rapporto malsano fra politica e imprese. Una concezione che considera lo Stato un prestatore di ultima istanza cui rivolgersi prima del fallimento e della catastrofe. Ancora una volta viene meno il principio di responsabilità cui ci si dovrebbe attenere in un Paese civile.
Speriamo solo di non dover ripetere queste parole amare fra qualche settimana, commentando l'acquisto da parte dello Stato della parte più rilevante di Telecom Italia (la rete fissa), un'impresa che successive generazioni di imprenditori e di banche (in alcuni casi gli stessi della vicenda Alitalia) hanno solamente caricato di debiti.