nuovigiorni

"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

mercoledì 26 giugno 2013

Aria


Le organizzazioni mondiali che si occupano (e si preoccupano) della nostra salute, fino a qualche anno fa erano più martellanti e incisive nell'affrontare la loro crociata contro i condizionatori d'aria che danneggiano il nostro globo.
È vero che sono tantissime le persone, principalmente anziani e bambini, che rischiano esponendosi a temperature climatiche troppo elevate. Un occhio più attento all'ambiente, però, non fa male se si pensa alla quantità di energia e all'emissione di gas a effetto serra, prodotta dagli impianti di climatizzazione.
Un uso più responsabile dei condizionatori è necessario per smorzare un doppio inquinamento: quello derivante da un maggiore uso della corrente elettrica e quello che è prodotto dal gas dei motori di raffreddamento.
Bruno Gambarotta su La Stampa racconta, con dovizia di particolari, le estati di tanti decenni fa in quelle "case antiche, con spesse mura, progettate per trattenere il calore d’inverno e impedirgli di penetrare d’estate. I grandi aprivano sapienti spiragli nelle finestre e nelle porte che si aprivano su pareti in ombra e le bloccavano con zeppe di legno perché non sbattessero".
Un'atmosfera difficile da carpire ai nostri giorni, che allora coinvolgeva giovani e adulti in un ritmo impossibile da rivivere: "Per noi ragazzi era un tempo dilatato, non scorreva mai; si poteva solo leggere o ascoltare alla radio le cronache del Giro d’Italia o del Tour de France. Dalla cucina arrivava il rumore del ghiaccio avvolto in un asciugamano e frantumato con il batticarne, il segnale che fra poco sarebbero arrivate le granatine con la menta o il succo di limone e zucchero".


Canzone del giorno: Aria (2002) - Gianna Nannini
Clicca e ascolta: Aria.... 



TENDE BIANCHE E TÉ BOLLENTE CONTRO L’AFA
BRUNO GAMBAROTTA
La Stampa 16 6 2013

Un gran tripudio di tende bianche lunghe fino a terra, svolazzanti o ferme. Registi e scenografi, quando vogliono rappresentare le estati di un tempo, ordinano metri di stoffa bianca e la immergono nel té per farle prendere la giusta patina. Sono così la sequenza iniziale del Gattopardo di Luchino Visconti e la scena teatrale degli Innamorati di Goldoni per la regia di Massimo Castri. Erano così le estati della nostra infanzia, noi esortati a stare fermi nella penombra di stanze con gli scuri serrati a respingere un sole che li arroventava.
Erano case antiche, con spesse mura, progettate per trattenere il calore d’inverno e impedirgli di penetrare d’estate. I grandi aprivano sapienti spiragli nelle finestre e nelle porte che si aprivano su pareti in ombra e le bloccavano con zeppe di legno perché non sbattessero: era il cosiddetto «riscontro»; di lì a poco i primi refoli avrebbero fatto rabbrividire le tende. I meridionali quella fase del giorno la chiamavano la «controra»; Leonardo Sinisgalli la spiegava come «l’ora avversa, quando il sole ha appena cominciato la china». Per noi ragazzi era un tempo dilatato, non scorreva mai;  si poteva solo leggere o ascoltare alla radio le cronache del Giro d’Italia o del Tour de France. Dalla cucina arrivava il rumore del ghiaccio avvolto in un asciugamano e frantumato con il batticarne, il segnale che fra poco sarebbero arrivate le granatine con la menta o il succo di limone e zucchero.
I grandi sentenziavano che «per combattere il caldo non c’è niente di meglio di una tazza di té bollente». Uno zio, che per studiare era entrato in se- minario senza vocazione e ne era uscito prima di prendere i voti, tirava in ballo il più citato fra i Pensieri di Pascal: «Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una cosa sola: dal non sapersene stare tranquilli in una stanza». Noi, posseduti da una smania crescente di scendere in strada a giocare, eravamo forse infelici?  Non credo proprio, anche se invidiavamo quei nostri compagni lasciati liberi di rincorrersi sotto una cappa di un calore morto e pesante. Arrivava infine la nostra liberazione, annunciava dall’aumentato movimento delle tende, dalla luce che mutava colore e dall’allungarsi delle ombre. Si giocava a calcio con porte improvvisate; le finestre delle case, man mano che il sole le abbandonava, si aprivano e gli anziani in canottiera si affacciavano appoggiando al davanzale le braccia incrociate. Sostavano a guardarci finché dall’interno una voce non li chiamava a tavola.
Un altro giorno di guerra vittoriosa contro l’afa era trascorso. Prima o poi avremmo visto le rondini volare rasoterra lanciando alte strida, formarsi sulla strada minuscoli mulinelli di polvere, foglie e cartacce, an- nunci del primo temporale che avrebbe rotto l’assedio.