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"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

domenica 25 dicembre 2011

La via di Betlemme

Intervento di Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, su La Stampa:
Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo. Questa esortazione della Lettera agli Ebrei - che fa riferimento alla vicenda di Abramo che a Mamre accolse tre pellegrini stranieri rivelatisi poi messaggeri di Dio - ci offre una chiave di lettura del Natale e del suo senso nella nostra società oggi.
Cosa sapevano gli abitanti di Betlemme di quella coppia in viaggio che cercava un riparo perché la donna incinta potesse partorire? Ne avessero sospettata l’identità, le avrebbero aperto le porte della loro casa, oppure si sarebbero limitati a tollerare che occupasse per un po’ una stalla in disuso? I pastori dei dintorni - gente emarginata nella società e nella comunità religiosa perché inadempienti agli obblighi cultuali e legali - mossi dalla spontanea solidarietà verso chi è costretto a pernottare all’aperto, decisero almeno di andare a vedere: e sappiamo tutti che, una volta che il nostro sguardo incrocia quello di una persona nel bisogno, ci è molto più difficile non prendercene cura... E quei tre sapienti di un’altra terra e di un’altra religione, cosa sapevano di quel bambino figlio di poveri? Cercavano un re, un inviato da Dio e trovano una famiglia di emigranti... eppure non esitano a colmarla di doni regali. E quei due anziani al tempio di Gerusalemme, come potevano riconoscere in un primogenito, figlio di una famiglia anonima, riscattato con due tortore, offerta dei poveri, il Messia, l’atteso per secoli da tutto il popolo?
Anche loro si limitano a prendere il piccolo tra le braccia, a tesserne le lodi, a immaginarne il futuro, come siamo portati a fare con qualsiasi neonato. Davvero un’apparizione nascosta, discreta, quotidiana, quella del figlio di Dio in mezzo alla sua famiglia, l’umanità intera: una presenza ordinaria che dice qualcosa in più solo a chi è disposto all’accoglienza. Quest’anno molti vivono un Natale più difficile del solito, non solo in quei luoghi dove la vita è sempre faticosa o dove testimoniare la propria fede è sovente a rischio fino alla persecuzione, ma anche nel nostro Paese, con sempre più persone in ristrettezze economiche. Questo dato si interseca con una sorta di ambivalenza legata alle festività natalizie: da un lato siamo quasi naturalmente più disposti ad atteggiamenti di benevolenza verso il prossimo, di bontà, di riconciliazione; d’altro canto tendiamo a vivere questi sentimenti «tra noi», all’interno della ristretta cerchia degli intimi. Ambivalenza che rende ancor più pesante la solitudine e la sofferenza di chi non ha persone care attorno a cui stringersi, di chi le ha perse, di chi le ha lasciate lontano nella speranza di preparare un futuro migliore per loro... Sì, a Natale ci sentiamo tutti più buoni, ma verso chi vogliamo noi, verso chi decidiamo che sia destinatario del nostro affetto. E in tempo di difficoltà economiche la tentazione è quella di rinchiuderci ancora di più nei nostri piccoli nidi rassicuranti.
Solidarietà e accoglienza paiono a prima vista più difficili nelle stagioni dure, nei momenti di difficoltà, soprattutto per chi non le ha assunte come proprio habitus nei giorni più propizi. E invece la storia, anche quella «sacra» legata alla nascita di Gesù, ci insegna che proprio i poveri, i nomadi, i viandanti, gli emarginati, gli stranieri sono le persone più capaci di accoglienza, di apertura all’altro, di condivisione del poco di cui dispongono. E basta conoscerli, parlare con loro, lasciarsi accogliere da loro per sentirli narrare le meraviglie degli incontri gratuiti che hanno avuto: sono storie di ordinaria straordinarietà, vicende di rapporti nati nell’emergenza e divenuti amicizie solide, avventure di un momento burrascoso trasformatesi in storie di amore fedele. Forse questo Natale potrebbe insegnarci qualcosa in merito: nello straniero che abita a pochi isolati da noi e che incontriamo per strada, nel senzatetto che si rifugia tra i suoi cartoni, nei nuovi poveri in coda per un pasto caldo, nell’anziano che fatica a riscaldare la sua stanza c’è un essere umano portatore di vita e di speranza, ci sono un cuore, un corpo e una mente che desiderano comunione, c’è una presenza dell’assenza lacerante della persona amata.
Chi può dire cosa troviamo se ci accostiamo all’altro senza pregiudizi e paure, se gli apriamo la porta del nostro cuore, se gli restituiamo quella dignità che è suo diritto inalienabile? Chi di noi ha guardato, dico «guardato», negli occhi un volto e si è sentito estraneo, soprattutto quando quel volto presenta i segni della sofferenza? Non lo si dimentichi: Dio si è mostrato in Gesù con tratti umanissimi perché ciò che era straordinario in Gesù non era nulla di religioso ma solo umano, umanissimo. Sì, Dio ha sembianze così umane che rischia di passare inosservato: per riconoscere l’altro in verità, l’unico sguardo lungimirante resta quello dell’accoglienza, oggi come a Betlemme duemila anni fa.