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"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

sabato 18 ottobre 2025

La nuova paranza

Palermo si sta «paranzizzando»: un neologismo che descrive la trasformazione del crimine in paranze, gruppi di giovani, giovanissimi, che si uniscono per vincoli di amicizia, parentela e, soprattutto, di territorio, e iniziano a delinquere. Non si pongono obiettivi precisi: cercano l’affermazione di sé attraverso la spavalderia, la diffusione della paura, il farsi rispettare incutendo timore. Tutto questo per l’ambizione di poter ricevere incarichi, la gestione di piazze di spaccio, il controllo estorsivo. Il sogno è quello di poter fondare una famiglia, di poter essere affiliati, se i libri mastri di un clan si riaprono per tornare ad affiliare. Nell’attesa, provano a essere qualcuno: e qualcuno significa diventare un gangster. Ma come si diventa gangster nel nostro tempo, in Italia, in una terra dove Cosa Nostra affilia con il contagocce, dove le organizzazioni criminali non hanno più l’ossessione del controllo territoriale ma la missione del dominio economico, sempre più slegato da un ordine sociale? Si parte dall’aspetto: dal sembrare gangster. E non ci sono più gessati, borsalini, né eleganza di sartoria. In questo senso, Gaetano Maranzano, il 28enne che ha sparato in testa a Paolo Taormina l’11 ottobre, è un archetipo del criminale di paranza: barba lunga (quando possono farsela, perché la maggior parte ha meno di diciotto anni e non ha ancora peli in faccia — in quel caso sostituiscono con un baffetto di peluria adolescenziale); borsello a tracolla con ben visibile il logo della marca; scarpe mai al di sotto del valore di mille euro; collane d’oro con simboli di pistole o AK-47. Al primo sguardo non incutono paura ma ridicolo. Si muovono persino in modo maldestro, costantemente impegnati a proclamare di essere duri, di decidere quando farti attraversare la strada, quando chiudere un locale, solo quando loro vogliono andar via. Decidono loro come e dove puoi parcheggiare, se puoi guardarli negli occhi o no. I loro comportamenti e i loro abiti sembrano un’imitazione scadente di un cantante trap o di un mafia movie. Ma il ridicolo si muta facilmente in dramma quando sparano, ammazzano. Maranzano ha dichiarato che Paolo aveva importunato sua moglie (sembra che le avesse solo messo like a una foto) e che, quella notte, al locale, si era sentito minacciato di fare una cattiva figura. Ecco le sue parole: «Siccome lui era in difetto con me, mi guardava male, nel suo cervello mi voleva sfidare». Il «difetto», per Maranzano, è l’aver contattato la moglie. E aggiunge: «I ragazzi facevano casino e lui è venuto a prendere di petto me. In più io avevo astio con lui per la cosa di mia moglie. Parlava verso di me, diceva “qua non si deve fare vucciria”. Mi voleva mettere in cattiva luce davanti alle persone». Ecco il vero motivo per cui ha sparato: la cattiva luce davanti agli altri. Tutto diventa sfida. Ogni atto, fatto o subito, è un banco di prova. Taormina dava una mano ai genitori, proprietari del locale O’ Scruscio, e cercava di calmare gli animi quella notte, la sua ultima notte. Ma Maranzano si è sentito leso e il «capitale» che ha voluto difendere è la capacità di intimidazione, quindi ha estratto la pistola e ha sparato in testa a Paolo. Se qualcuno viene a chiedere di farla finita, nella sua lettura significa che non ha paura, che non ha rispetto. E così ammazza. […] Dopo la strage di Monreale dell’aprile scorso, compiuta da ragazzi di meno di 20 anni, e dopo quanto accaduto a settembre, quando paranze rivali — una del quartiere Zen e una della zona Marinella — si sono affrontate ferendo una donna incinta, abbiamo la prova che la Sicilia sta vivendo una trasformazione strutturale del proprio crimine. Negli anni Ottanta, la mafia condannava a morte con propri tribunali chi rubava auto, i topi d’appartamento, gli spacciatori. Ogni crimine doveva essere autorizzato. Oggi, invece, permette le paranze, e lo fa di buon grado, esattamente come la camorra, perché non conviene più controllare il territorio. E non è più conveniente mantenere a stipendio centinaia di famiglie. Quindi permettono tutto questo, anzi, ne traggono beneficio: possono affidare loro mansioni, e di volta in volta decidere se usarli, abbandonarli, eliminarli o promuoverli. La sintesi più drammatica l’ha data un ragazzino di 14 anni arrestato a Napoli con quaranta dosi di cocaina. Alla domanda dei carabinieri sul suo comportamento, ha risposto: «Vado da Pomigliano a Castello di Cisterna per lavorare». Quando gli hanno ricordato che quello non era un lavoro, ha precisato: «Non so fare altro che spacciare». Il fallimento della democrazia.

Roberto Saviano, Corriere della Sera (16/10/2025)

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