And we make beautiful music together
You're my song that keeps playing forever
Together
E insieme creiamo musica meravigliosa
Sei la mia canzone che continua a suonare per sempre
Insieme
Beautiful Music, Keb’ Mo’ ft.
Robbie Brooks Moore (2019)
"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".
Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)
You're my song that keeps playing forever
Together
E insieme creiamo musica meravigliosa
Sei la mia canzone che continua a suonare per sempre
Insieme
Beautiful Music, Keb’ Mo’ ft.
Robbie Brooks Moore (2019)
Arrivati a questo punto dovremmo avere il coraggio di lasciarci sopraffare. Smettere di difenderci, almeno individualmente, dall’abominio storico di una popolazione senza vie di scampo, che non sopravvive più fra le macerie dei bombardamenti, senza cibo né requisiti minimi di dignità. Anche tentare questa descrizione di Gaza è strano, riduttivo. Perché siamo oltre la possibilità di rappresentazione, fuori dalla portata massima delle parole. Nelle ultime settimane perfino gli operatori delle Ong che lavorano nella Striscia, quei pochi, sembrano ormai a corto di frasi. Spesso non lanciano più allarmi. Ricorrono a espressioni iperboliche invece, «mai visto prima», «senza precedenti», «oltre». Come se il trauma e la spossatezza li avessero ammutoliti o non trovassero termini di paragone adeguati nell’immaginario comune. Legami possibili con la nostra quotidianità. Noi, da qui, pensiamo a loro lì, alla popolazione palestinese intrappolata, e non ci siamo mai sentiti a tal punto irrilevanti. Cosa ci farà questo nel lungo termine, cosa farà alla nostra civiltà e in particolare alle nuove generazioni, è tutto da scoprire. […] Osservando come si è evoluta la mobilitazione per la Palestina in ventidue mesi, in Europa e negli Stati Uniti, si ha l’impressione di una consequenzialità recisa fra il sentimento collettivo e l’iniziativa politica. Neppure la decisione improvvisa di Macron di riconoscere lo stato palestinese appare legata a un intensificarsi della pressione popolare sul tema. Ha il merito di essere quanto meno un’azione, l’attestazione da parte di un capo di stato della sofferenza che viene prodotta anche in questo preciso momento e che in questo preciso momento andrebbe fermata. Ma sembra provenire da una misura colma interiore, personale, tutta sua. Altrettanto personali, per non dire capricciose, sono le esternazioni di Trump (anche sull’Ucraina se è per questo). Mentre da noi non si registra da parte del governo nessuna necessità anche solo di accogliere lo sgomento diffuso su Gaza, nessuna proporzionalità nei toni, nessuna misurazione recente del polso dell’elettorato. Sebbene il polso, con una carestia indotta che fa da sottofondo alla nostra estate, sia decisamente cambiato. La crisi profonda non è solo della rappresentazione, quindi, ma anche della rappresentatività. Il potere esecutivo — in questo tempo di invasioni senza fine, di occupazioni sfrenate, di fame e sete usate come armi in sfregio a ogni regola — è diventato lontano e incomprensibile. Anzi, non sembra più riconoscere fra i suoi obblighi impliciti quello di essere prossimo e compreso. E così, davanti all’eccidio, noi restiamo non solo privi di parole ma anche di chi dovrebbe averle per noi.
Paolo Giordano, Corriere della Sera (26/7/2025)
"Sedendo
e riposando l'anima diventa saggia".
Frase che l’anonimo
fiorentino (commentatore medievale dell’opera di Dante Alighieri) attribuiva ad
Aristotele
La badilata mondiale di sterco, minacce, insulti e maledizioni piombata addosso ad Andy Byron e Kristin Cabot, i due amanti pizzicati dalla “kiss cam” (?) durante il concerto dei Coldplay, dice molto sulla ferocia – e sulla deficienza – di questi tempi miserevoli. Da giorni non si parla d’altro o quasi. Dopo la pubblicazione del video, divenuto virale come capita puntualmente ai video più innocui e/o imbecilli, i due protagonisti sono stati spiati, spulciati, vivisezionati e vomitati dal mondo tutto (i social, sì, ma anche non poche testate in via teorica autorevoli, a conferma di come ormai la demenza sia trasversale). [...] Quella “kiss cam” è una palese incarnazione (una delle tante) del Grande Fratello. Non esiste più privacy, sei sempre controllato e non puoi farti i fatti tuoi neanche durante un concerto. Max Pezzali, durante i concerti, mette in guardia il pubblico attraverso una scritta sui maxischermi: “Attenti a chi baciate durante il prossimo brano. Potreste essere ripresi”. Lo faceva già da prima del caso-Coldplay, e ci aveva visto lungo. Quello che è capitato ai due amanti dimostra poi altre due cose. La prima è il bigottismo che impera nel nostro mondo: puoi rubare, puoi violentare, puoi ammazzare e non succede quasi nulla. Se però “tradisci”, parte puntualmente la reazione pruriginosa e falsamente puritana degli ipocriti, che nel loro privato fanno (o sognano) le peggiori porcate, ma che – se sentono odore di corna – partono coi kalashnikov. Questo bigottismo porta con sé l’altro elemento profondamente perverso, che è la sproporzione tra “colpa” e punizione. Ogni giorno assistiamo nell’indifferenza generale a massacri, stermini, genocidi. Se però un tizio tradisce la moglie e magari fa pure la figura da pirla in mondovisione, il branco si scatena. E parte il sempiterno “dagli all’untore”. Se Byron e Cabot hanno meritato una tumulazione così brutale, cosa dovrebbero meritare i Netanyahu vari? Domanda ovviamente inutile, perché molti dei moralisti minchioni che si sono scatenati vigliaccamente contro la coppia illegittima, sono senza dubbio fan dei Netanyahu e derivati. O peggio ancora, neanche sanno chi sia. Il nostro presente è ormai un greatest hits di miseria e follia. Ci indigniamo per le stronzate e non facciamo niente di fronte all’apocalisse. Sindachiamo sulle vite altrui, mentre nel frattempo buttiamo via le nostre. Siamo feroci coi deboli e vigliacchi coi forti. Insensibili alle tragedie e permalosissimi sulle boiate. Drogati di voyeurismo, ignoranza, invidia e menefreghismo. E il mondo che abbiamo tirato su ne è prova. Che spettacolo!
Andrea Scanzi, Il Fatto quotidiano (22/7/2025)
Nel tempo in cui l’intelligenza artificiale dimostra una capacità di analisi superiore a qualunque mente umana, il manager si scopre più informato ma meno creativo, più preciso ma meno visionario, più efficiente ma meno libero. È il paradosso cognitivo del manager algoritmico: delegare il pensiero analitico alla macchina libera tempo e risorse ma finisce per irrigidire la capacità di pensare out of the box. L’Ai consente di formulare previsioni di mercato più accurate, elaborare scenari complessi, scoprire pattern e relazioni nascoste e latenti all’interno di enormi volumi di dati, potenziando le capacità del management di decidere ed agire in tempi rapidi e su basi percepite come oggettive. Questa oggettività algoritmica rischia tuttavia di diventare un fattore invisibile di distorsione cognitiva, che porta a confondere la profondità con la precisione e l’intuizione con l’analisi. Gli algoritmi apprendono e fondano le loro elaborazioni su fenomeni già osservati, registrati, classificati e, in quanto tali, riferiti al passato. Il manager che si affida troppo all’intelligenza artificiale rischia di assumere decisioni prevedibili quanto i modelli che consulta e di perdere l’attitudine a rompere schemi, immaginare il nuovo, intravedere possibilità che i dati non possono ancora raccontare. In questo senso, l’Ai può diventare una gabbia cognitiva, che incentiva una forma di pensiero lineare e deduttivo e scoraggia la deviazione, l’ambiguità, la sorpresa. Mentre il potere predittivo dell’Ai cresce, si affievolisce il coraggio di disubbidire ai numeri ed immaginare scenari alternativi, inattesi, eppure possibili. Il pensiero divergente, motore insostituibile dell’innovazione strategica e del vantaggio competitivo, viene compresso dalla ricerca di efficienza e la decisione manageriale si appiattisce sull’ottimizzazione. Ma ottimizzare non è innovare e prevedere non è comprendere. L’efficienza non genera futuro se non è guidata da una tensione verso il possibile, verso ciò che ancora non esiste. Il rischio è che il manager finisca per disimparare a pensare strategicamente; che la delega eccessiva all’analisi algoritmica atrofizzi le capacità di intuizione, visione, lettura dei contesti nei loro paradossi e nella loro ambiguità; e che si sviluppi una nuova forma di “dipendenza cognitiva” dall’algoritmo, con l’incertezza non più considerata come opportunità per generare significato, ma come errore da correggere. Un ulteriore pericolo è l’impoverimento valoriale del ruolo del manager: se la sua funzione si riduce al recepimento e all’applicazione dei risultati generati dagli algoritmi viene meno la responsabilità di decidere, di assumersi il peso della scelta anche quando i dati sono ambigui, insufficienti o contraddittori. Non è pensabile rinunciare alle immense potenzialità dell’Ai. È tuttavia fondamentale evitare che l’intelligenza automatica sostituisca o diminuisca la creatività umana e difendere il ruolo strategico del manager come custode di domande, curatore di visioni, architetto dell’inatteso. L’intelligenza artificiale deve potenziare il processo di analisi ed aiutare ad interpretare i dati in modo più profondo e preciso, non rimpiazzare la volontà di rompere gli schemi, la capacità di cogliere l’inedito, il coraggio di andare controcorrente. Diventa allora essenziale promuovere una cultura 5.0 del management orientata allo sviluppo della capacità di leggere, interpretare, contestualizzare gli output degli algoritmi; che valorizzi la complessità, la dialettica tra analisi e intuizione, tra rigore e immaginazione. Serve, inoltre, sviluppare e consolidare un’etica del discernimento, che restituisca al manager la libertà di sbagliare per imparare, e non solo la responsabilità di ottimizzare. Il manager del futuro dovrà essere in grado di vedere l’eccezione là dove l’Ai rileva la regola, di scegliere l’inatteso quando il modello suggerisce il consueto. Il paradosso cognitivo non si risolve opponendosi all’onda dell’Ai, ma riscoprendo il valore umano del pensiero divergente: se l’intelligenza artificiale conosce le risposte, il manager deve avere il coraggio di porre le domande che ancora non sono state fatte.
Francesco Ciampi, Il Sole 24 Ore (18/4/2025), professore ordinario di Economia e Gestione delle imprese - Università degli Studi di Firenze
In Sicilia molti tipi um ani sono paragonati ai cani, non sempre è un insulto. Anzi. Il canazzo di bancata è colui che sfrutta una rendita di posizione perché risiede stabilmente nei pressi di un negozio di alimentari e quindi riceve gli avanzi che il proprietario lascia cadere per terra. Dicesi, ad esempio, di chi frequenta uffici pubblici o ha ruoli politici: ogni tanto qualcosa gli resta in bocca. Il canazzo di mannara è il cane pastore, aggressivo e rabbioso, difende il proprio territorio con violenza. Il canazzo di vucciria, invece, è un tipo metropolitano, sta con altri cani altrettanto randagi davanti alle macellerie e ingaggia risse furiose per accaparrarsi l'osso buttato via dal carnezziere. Io amo il canazzo dell'ortolano che non mangia né fa mangiare, perché sorveglia un bene di cui direttamente non può godere, non essendo un animale erbivoro, per cui è tutore di qualcosa d'astratto come la gustizia o il diritto o la verità.
Gaetano Savatteri, La magna via (2024 - ed.Sellerio)
La lettera con cui Donald Trump comunica all’Unione europea l’imposizione di dazi al 30%, a partire dal 1° agosto, sembra opera di un ragazzino delle scuole medie, non molto versato per la scrittura. Leggetela, vale la pena. Concetti ripetuti, vocabolario ridotto, blandizie e velate minacce. Se aggiungiamo che il mittente è appena comparso sull’account X della Casa Bianca vestito da Superman («Simbolo di supremazia!») occorre decidere: dobbiamo ridere o preoccuparci? Temo dobbiamo preoccuparci. Quando ho detto a «Otto e mezzo» (La7) che Donald Trump avrebbe bisogno di un buon psicoterapeuta, sono stato insultato sui social. Vorrei che i miei critici mi spiegassero dove sbaglio. Quello del Presidente americano vi sembra un atteggiamento normale? E non, invece, il comportamento erratico di un anziano collerico, narcisista e impulsivo? Non è mancanza di rispetto: è sincera preoccupazione per la strada imboccata da un Paese amico. Inutile elencare le decisioni strane o aggressive prese dall’amministrazione Trump in sei mesi. Non è solo la sostanza, ma anche la forma, a sconcertare. I rapporti delle nazioni - anche nei periodi più complicati - richiedono ritualità e prevedibilità. Altrimenti il sistema internazionale non regge, e le conseguenze rischiano di essere devastanti. È possibile - addirittura probabile - che sui dazi alla Ue Donald Trump cambi idea. Chiedere molto in modo aggressivo, poi ridurre le pretese, è la sua tattica negoziale. Ma il problema rimane. Trump finge di non capire che il disavanzo commerciale è frutto di una scelta: gli USA importano le merci che non possono o non vogliono produrre. Anche perché producono altro, assai prezioso: in campo aerospaziale, militare, biomedico, farmaceutico. Per non parlare dei servizi digitali delle Big Tech, che Trump - chissà perché - pretende siano esentasse in tutto il mondo. Ma qui siamo entrati nella sostanza della questione. Il problema però, come dicevamo, riguarda anche la forma. In questa e altre vicende, Donald Trump sembra godere nel provocare e sorprendere la controparte. Ma così si comportano i giocatori d’azzardo, non i presidenti. D’accordo che il mondo è diventato un casino, ma a tutto c’è un limite.
Beppe Severgnini, Corriere della Sera (12/7/2025)
Di Lloyd, di sir, di tuffi e navigazioni
“Lloyd stavo per fare un tuffo nella
nostalgia…”
“E non l’ha fatto? Vero, sir?2
“Esatto. Dici che sto invecchiando?”
“Semmai sta ringiovanendo, sir”
“Evitare il passato non rende più giovani,
Lloyd”
“Ma rinunciare a galleggiare nei suoi
rimpianti sì, sir”
“Passeggiata nel presente, Lloyd?”
“Con nuovi orizzonti davanti, sir”
Simone Tempia, Dialoghi immaginari – Vita con
Lloyd (Linus – Giugno 2025)
«Faccio mattoni da 40 anni, ma non sono mai riuscito a guadagnare abbastanza per costruirmi una casa». Ninder Singh, un cinquantenne con una moglie, tre figli e nessuna speranza di un futuro migliore, è l’incarnazione di un paradosso. Mentre l’India cresce a ritmo impetuoso – oggi è la quinta economia del mondo, entro fine anno sarà la quarta e nel 2028 la terza – nelle regioni rurali del Paese centinaia di milioni di persone continuano a vivere esistenze marginali, governate da rapporti di forza che hanno attraversato indenni i secoli. Un fenomeno che è particolarmente pervasivo nell’economia informale – un magma di lavoro senza regole e rapporti di forza impari – che s’insinua in ogni ambito della società indiana, e che in settori come le costruzioni sembra essere diventato il lubrificante indispensabile per il loro funzionamento. Le fornaci che sfornano mattoni danno lavoro ad almeno 10 milioni di persone e sono parte del panorama della piana gangetica almeno quanto le onnipresenti pubblicità di cemento, vernici e tondini di acciaio dipinte a mano sui muri delle case. Tutti segni di un Paese impegnato a costruire edifici per una popolazione che è già la più grande al mondo e, secondo i demografi dell’Onu, continuerà a crescere per almeno altri 40 anni, fino a raggiungere gli 1,7 miliardi. Delle tante tessere che compongono il mosaico del boom economico indiano, quella del settore delle costruzioni è una delle più cangianti. A seconda della luce sotto la quale la si osserva è una formidabile success story o l’esempio più clamoroso di un modello di sviluppo incapace di distribuire in maniera equa la ricchezza che genera. Secondo il report “India Construction Industry”, tra il 2020 al 2024 il settore è cresciuto in media del 12,4% all’anno ed entro la fine del 2029 il giro d’affari dovrebbe superare i 457 miliardi di dollari. La stampa finanziaria indiana, che segue con attenzione febbrile il mercato delle Ipo, stima che tra l’anno fiscale in corso e il prossimo le imprese del settore che si quoteranno in Borsa raccoglieranno 1,7 miliardi di dollari. Le crescenti dimensioni e sofisticazione finanziaria del mondo delle costruzioni fino a oggi non si sono tradotte in migliori condizioni di vita per molti di coloro che lo fanno funzionare. Nella stessa fornace dei Singh lavorano, contro ogni regola, due ragazzini di 11 e 14 anni, Vishal e Masih: ogni 3mila mattoni da 3 chili l’uno che spostano da una parte all’altra del complesso ricevono 200 rupie. Due euro ogni nove tonnellate. Per il privilegio di fare un lavoro sfiancante che distrugge i polmoni e accorcia la vita. […] Le fornaci aprono dopo i festeggiamenti di Diwali, a fine ottobre, e chiudono con l’arrivo del monsone, a giugno. «Durante la stagione delle piogge, i lavoratori tornano nei propri villaggi, dove non trovano che impieghi saltuari e per sopravvivere s’indebitano con gli intermediari specializzati nel procacciare lavoratori alle fornaci di mattoni»… Nel caso dei Singh quest’anno si tratta di 40mila rupie, 400 euro. Per ripagarle, quattro dei cinque membri della famiglia (la figlia si è sposata, forse salvandosi, di certo contribuendo con la sua dote all’indebitamento) lavorano 10 ore al giorno, sei giorni su sette per otto mesi. Giornate massacranti che in primavera – per evitare le ore più calde, quando il termometro supera i 45 gradi – iniziano alle tre di mattina. Alla fine di ogni settimana, la famiglia Singh riceve 2mila rupie, 20 euro, ovvero 83 centesimi al giorno a testa. Quanto basta per comprare piccole quantità di cibo da cuocere su un fuoco alimentato dalle “torte” di sterco pressato ed essiccato che ancora oggi restano uno dei combustibili più popolari nelle regioni rurali dell’India. Il resto dello stipendio va direttamente all’intermediario per ripianare il debito. Ci sono anni in cui, alla fine della stagione, avanza qualcosa. Altri in cui i conti sono in pari. Altri ancora, come l’ultimo, in cui «non ce la facciamo». Così il ciclo di indebitamento si allunga. Da un’estate all’altra. Da una generazione a quella successiva.
Marco Masciaga, Il Sole 24 Ore (29/06/2025)
«Ritirarsi non è fuggire. Non c'è saggezza nell'attesa quando il pericolo è più grande della speranza, ed è compito del saggio conservare le proprie forze per il domani, e non rischiare tutto in un giorno».
Miguel De Cervantes (1547 – 1616)
Suzanne Vega, Speakers’ Corner (2025)
L’angolo degli oratori, eccolo lì
In politica o in una canzone
Per provare tutto ciò che senti
Che sia giusto o sbagliato
Tutti quelli pieni di vento e parole
Che ululano, sbraitano e vaneggiano
Gridando fatti distorti
Sulle anime che salvano
Promettendo miracoli
E intascando il denaro
Fingendo di avere princìpi
Predicando solo cenere (8)
L’angolo degli oratori, eccolo lì
In politica o in canto
Forse è meglio usarlo adesso
Prima che scompaia del tutto.
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The speaker’s corner, there it stands
In politics and song
I guess we better use it now
Before we find it gone.
![]() |
Nico Pillinini, da google.it |
2.
The
Smiths, What She Said – (Meat
Is Murder – 1985) –
Idiozie illimitate
3.
Randy
Newman, Guilty – (Good
Old Boys – 1974) – Cortocircuito
esistenziale
4. Uriah Heep, Return
To Fantasy – (Return To Fantasy – 1975) – Bloccati
5.
Verdena, E’ solo lunedì – (Wow
– 2011) – Ne
parliamo lunedì
6.
Alicia
Keys, How It Feels To Fly – (The
Element Of Freedom – 2009) – Insularità
di animo
7.
Mastodon, Black Tongue – (The
Hunter – 2011) – Azioni
criminali
8.
Samuele
Bersani, Giudizi universali – (Samule
Bersani – 1997) – Piano
inclinato
9.
Giovanni
Sollima e Carlotta Maestrini, Aria – (Untitled
– 2022) –
Ostilità
10.
Kenny
Rogers, The Gambler – (The
Gambler – 1978) – La
scelta dell’azzardo
11.
Counting
Crows, Catapult – (Recovering
The Satellites – 1996) –
Coreografia della Guerra
12.
John
Mayall, Travelling – (Back
To The Roots – 1971) – Viaggio
per viaggiare
13.
Gracie
Abrams, Let It Happen – (The
Secret Of Us – 2024) – Il
peso del caso