Un papa americano. Un uomo commosso. Nel segno della continuità. Nelle vesti della formalità. Invocando la pace. Dispensando l’indulgenza. Robert Francis Prevost, che passerà alla storia come Leone XIV, si è presentato all’incrocio di molte motivazioni e di altrettanti segni. Ha trovato ad attenderlo centocinquantamila persone fisiche e un miliardo virtuali. Sorprese dal suo nome, curiose del suo esordio, spaventate per il futuro. «Che la pace sia con voi». E «Ave Maria ». Ha nominato due volte papa Francesco, ma ha indossato la mozzetta rossa, la croce d’oro, la fascia. Ha provato, con i simboli e con le parole, a situarsi al centro dei desideri di tutti. Probabilmente per questo è stato eletto. Tesi, antitesi e lui a fare da sintesi. Legato a Sant’Agostino come Ratzinger, venuto dalla periferia del mondo (Ciclayo, in Perù) come Bergoglio. È il primo papa statunitense, ma non è un uomo di Trump, anche se il presidente proverà a mettergli sopra un cappello da cow boy, anche se l’ombra scura dell’America si è allungata su piazza San Pietro. Prima l’ultimo colloquio del Papa precedente (con Vance), poi il dialogo, più mediatico che storico, aisuoi funerali (fra Trump e Zelensky) e ora questo pontefice accolto da uno sventolar di bandiere a stelle e strisce, curiosamente in maggioranza nelle strade intorno al Vaticano già da due giorni. Il romanzo del Conclave si è concluso in fretta, con soli quattro capitoli e una fumata fuori programma, controsole, alle 6 e 08 della sera. Ha tuttavia assecondato la fenomenologia di un evento che sa essere popolare e arcano, che dispensa una gioia infantile, concessa a una massa di orfani ai quali viene annunciato d’incanto: «È arrivato papà!». Il compimento di un destino non risponde ai pronostici, ma asseconda i segni. Si sono inseguiti per tutta la giornatadell’8 maggio 2025, ottantesimo anniversario (benché retroattivo) della capitolazione della Germania nazista. Che la pace sia con quelli che sono sopravvissuti. Una delegazione è salita dalla Campania guidata dalla cometa della coincidenza con la supplica alla Madonna di Pompei. […] La velocità della decisione aveva portato tutti gli esperti e perfino i prelati d’Italia a pensare a un connazionale: Parolin o, in subordine, Pizzaballa. Ma fin dall’inizio gli stranieri, soprattutto quelli venuti dalle Americhe, facevano quell’altro nome: Prevost. L’uomo che tiene insieme mondi. Nato a Chicago, da padre italo-francese e madre spagnola. Cittadino degli Usa e del Perù. A suo agio a Roma come a Chulucanas. Poliglotta. D’aspetto rassicurante, per quel che può valere. Quando la finestra si è aperta ed è stato pronunciato l’habemus papam al «Robertum Franciscum» nessuno ha capito di chi si stesse parlando. «Prevost» ha aiutato soltanto alcuni. È sceso un gelo primaverile: scarti un regalo e non capisci che cosa sia, come farne uso, ti aspettavi, avevi chiesto, altro; ma è Leone XIV e allora si alzi il coro. Nel solco della dottrina sociale, della Rerum Novarum, ma anche dell’opposizione al monumento a Giordano Bruno morto sul rogo e della visione nefasta riguardo al futuro imminente, confermata dagli accadimenti successivi. «Che la pace sia con voi», invece. Due volte il nome di Francesco e altrettante l’invito a non avere paura perché «il male non prevarrà». È la storia a dircelo, altrimenti non saremmo qui a raccontarla, ogni guerra è finita, ogni maceria è stata trasformata in nuova vita, ma abbiamo bisogno di sentircelo ripetere. Chi non amava gli strattoni, l’imprevedibilità e l’estrema disponibilità di Bergoglio si è compiaciuto potendosi sottomettere a un Papa di insegne e indulgenze. Chi voleva che non crollassero i ponti, ma i muri, pensa di poter camminare ancora verso l’altra riva, anche se si muove come un orizzonte. Nella prima apparizione di un Papa se ne cerca il lato umano, sapendo che su quello baserà il suo disegno. Di Wojtyla è rimasta la possanza con cui si appoggiò al balcone, di Bergoglio l’empatia. Di Prevost probabilmente resteranno il fremito del naso e gli occhi umidi. Certo, in Conclave ci sono correnti e ci si può facilmente raffreddare, ma quell’uomo con gli occhiali affacciato a un balcone è sembrato emozionato, se non sopraffatto. Non aveva davanti Roma, ma l’incognita di ciò che verrà. Forse anche lui, solo nella stanza delle lacrime, ha avuto una visione come il predecessore di cui ha scelto il nome e per contrastarla ha bisogno di una forza che chiede al cielo e alla terra. In poco più di due settimane abbiamo assistito ad avvenimenti mai visti: prima i potenti del pianeta che fanno il G20 al funerale di un uomo che, stanco di tutti loro, li lascia a parlare e se ne va a riposare altrove, poi, adesso, un Papa americano. La rigidità dei riti della Chiesa cattolica, così fuori da questo tempo, è sembrata una ringhiera a cui aggrapparsi contro la furia dell’attualità. Alla fine, la vetustà è ancora in grado di produrre novità, mentre il resto, mascherato da modernità, corre in retromarcia verso la fossa del Novecento. Per gli ultimi della Terra non ci sono profeti, liberatori, lider maximi o di media taglia. Hanno guardato a Francesco e da ieri sera a quest’altro di cui Francesco è il secondo nome. Condotto, per fede e con fede, nel cuore di ogni aspettativa, al confine di lama tra speranza e illusione.
Gabriele Romagnoli, Repubblica (9/5/2025)
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