nuovigiorni

"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

sabato 28 settembre 2024

Il lavoro sporco

Trasformare una guerra per la sopravvivenza d’Israele nell’innesco di una guerra mondiale, come ha fatto ieri dal podio delle Nazioni Unite, è il servizio peggiore che Benjamin Netanyahu poteva rendere al suo popolo. Suona come una chiamata alle armi di tutto l’Occidente – ammesso che una tale entità ancora esista, che sia pronta a lasciarsi trascinare, e che Israele ne faccia per davvero parte – in un conflitto diretto con l’Iran. È dal pomeriggio del 7 ottobre dell’anno scorso, a poche ore dal massacro perpetrato da Hamas e dall’umiliazione subita dagli apparati di sicurezza israeliani, che Netanyahu se lo sente ripetere in casa dai suoi ‘falchi’: non perdiamo tempo sfiancandoci nel ginepraio di Gaza, usiamo la nostra superiorità militare per sferrare un colpo definitivo ai mandanti di Hamas, che stanno a Teheran. Ancora nei giorni scorsi, le pressioni si erano ripetute: che senso ha attaccare gli Hezbollah che ci sparano addosso missili e droni dal Libano se prima non distruggiamo la potenza che li rifornisce, cioè l’Iran? Netanyahu è un pavido, tutt’altro che un guerriero. Spregiudicato e cinico, per anni si è accontentato di sottomettere i civili palestinesi e misurarsi con formazioni terroristiche, Hamas e Hezbollah, che rispetto a Tsahal combattono comunque in posizione d’inferiorità. Ma ora, dopo aver condotto in un vicolo cieco Israele, è diventato anche un leader disperato e affetto da mitomania, consapevole che neanche l’offensiva in Libano e la morsa di ferro imposta alla Cisgiordania, dopo la carneficina di Gaza, basteranno a restituire sicurezza ai suoi cittadini. Punta allora al grande azzardo: mettere definitivamente fuori gioco l’Onu, giungendo a insolentirlo di persona – terrapiattisti, antisemiti! – e convincere gli Usa, insieme alle destre nazionaliste europee, di non avere altra scelta che diventare compartecipi di un’avventura temeraria: spazzare via l’Iran degli ayatollah per pacificare il corridoio che va dall’Oceano Indiano al Mediterraneo. Così si romperebbe la solitudine d’Israele di cui scrive il filosofo Bernard-Henry Lévy, vaneggiando sulla necessità di riunire le potenze del cosiddetto “mondo libero” nel combattimento contro l’asse del male formato da Iran, Russia, Cina e Corea del Nord. Solo dei fanatici possono credere che l’allargamento a macchia d’olio della guerra possa rappresentare il presupposto della salvezza d’Israele. Se Hamas si è confermato una serpe in seno ai palestinesi, che mai avevano sofferto quanto gli è toccato dopo il 7 ottobre; se Hezbollah è la disgrazia di un paese-mosaico come il Libano; altrettanto miope è il consenso fornito dagli israeliani al “lavoro sporco” del loro esercito e della loro intelligence. Si capisce che siano esasperati dopo un anno infernale, fallace è la speranza di infliggere un colpo definitivo al nemico: questo “lavoro sporco” non finisce mai. Aggrapparsi alla sola capacità di fare paura, mostrarsi spietati, non ha mai salvato una nazione. Resta da chiedersi a chi piacerà il messaggio bellicoso lanciato da Netanyahu a New York. Dietro al quale si riconosce una visione apocalittica non solo del futuro del popolo ebraico, ma del mondo intero. L’11 settembre scorso, Donald Trump, di fronte a una platea di ebrei americani, aveva lanciato una cupa profezia: “Se al posto mio venisse eletta presidente Kamala Harris, fra due anni Israele non esisterà più”. Propaganda elettorale, d’accordo, tant’è che ha promesso anche di replicare il blocco dei visti d’ingresso negli Usa da sette paesi islamici, da lui ordinato nel 2017, estendendolo stavolta ai palestinesi in fuga da Gaza perché zona infestata dal terrorismo. Da demagogo provetto, Trump sapeva di far leva su un sentimento d’angoscia crescente nel mondo ebraico che ha visto Israele reagire inferocito alla ferocia di chi vuole distruggerlo ma, ciò facendo, rendere il proprio futuro ancor più malcerto. Il probabile futuro presidente Usa fa leva su un’opinione pubblica favorevole al disimpegno militare all’estero (con Putin ci si può mettere d’accordo, è più affidabile di Zelensky) ma portata a demonizzare in un unico calderone migranti, terrorismo, arabi, islamici. Non a caso dalla Casa Bianca aveva messo nel mirino l’Iran. Da qui il legame con Netanyahu, di cui apprezza il culto della forza e la spregiudicatezza. Da qui, più di recente, il patto di collaborazione tecnologica per “deradicalizzare il Medio Oriente” stretto dal medesimo Netanyahu con Elon Musk, sorvolando sulle recenti uscite antisemite dell’interessato. I portavoce della destra americana, come in Europa fa solo Orbán, hanno se non altro il pregio della chiarezza. Lo dicono e lo ripetono: “Non poniamo limiti all’azione militare di Israele, lasciamogli finire il suo lavoro. È un lavoro sporco ma lo sta facendo anche per noi”. Dopo il discorso di ieri all’Onu, spero che questa pazza idea sparisca dalla testa dei nostri governanti.

Gad Lerner, Il Fatto quotidiano (28/9/2024)

Canzone del giorno: Big Bad World (2000) - Colin James
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giovedì 26 settembre 2024

Il Calcio

“Il calcio sopporta una maledizione che allo stesso tempo è la salvezza di giocatori, allenatori e ultrà afflitti da una sconfitta. Si tratta di un’attività in cui non basta vincere, ma bisogna vincere sempre, in ogni stagione, in ogni torneo, in ogni partita. Nel calcio non c’è posto per il riposo né per il divertimento, a poco serve avere uno straordinario palmarès storico o aver conquistato un titolo l’anno prima. Essere stato ieri il migliore oggi non conta più, figuriamoci domani. […] Quel che so per certo è che non esiste sport che angosci di più, quando è angoscioso. Anzi, nel mio caso particolare confesserò che è tra le poche cose che mi fanno reagire oggi allo stesso modo – esatto – in cui reagivo quando avevo dieci anni ed ero un selvaggio, il vero recupero settimanale dell’infanzia”.

Javier Marías (1951 - 2022), Selvaggi e sentimentali. Parole di calcio (2002 - ed. Einaudi)

Canzone del giorno: Una vita da mediano (1999) - Ligabue
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lunedì 23 settembre 2024

Incollati

Capita spesso quando passeggio che uno straniero mi chieda l’indicazione di una via. Io naturalmente gliela do, ma stupisco: come mai viene a chiederlo a un vecchio talpone, smarrito, come me? Il fatto è che sono l’unico nei dintorni ad avere le orecchie libere, gli altri le hanno occupate dagli smartphone oppure sono impegnati col tablet. Se voi andate nei locali trendy di Corso Como, a Milano, vedrete che ai tavolini ci sono soprattutto coppie, ma quasi non si parlano, impegnati in telefonate che possono venire da tutto il mondo ma anche da qualche tavolo accanto. Anche a me sono capitate queste esperienze. Una volta avevo invitato a cena una mia amica, donna educatissima, che ci tiene molto a far fare la cacca ai cani nel posto loro riservato (perché queste bestie, così simili all’uomo per sottomissione, soccombismo, parassitismo hanno anche la pretesa di farla, robb de matt). Bene, per le due ore che durò la cena lei stette allo smartphone, anche in vocale per cui non capivo se parlava con me o con altri. Evidentemente non le interessavo granché, ma stando così le cose avrebbe potuto farmi risparmiare i 200 euro della cena. Capitava alle volte in treno di avere la fortuna di trovarsi davanti una bella donna con le gambe accavallate e la gonna appena sopra il ginocchio. Si chiacchierava e le si faceva un po’ il filo, anche se nel caso particolare che ho in mente non ebbi il coraggio di scendere alla stessa stazione (“Alla compagna di viaggio… e magari sei l’unico a capirla e la fai scendere senza seguirla… A quella conosciuta appena non c’era tempo e valeva la pena di perderci un secolo in più”, Le passanti, De André, 1974). In treno potevano nascere flirt e chissà amori. Adesso lei non ti guarda neanche, attaccata allo smartphone, non sarà mica il caso di parlare con una persona in carne e ossa? Con gli altri viaggiatori non è nemmeno il caso di attaccar bottone, stanno facendo la stessa cosa, per lo più impegnati in affari. L’avvento del digitale ha cambiato profondamente, in fondo in pochissimi anni, le nostre vite, la socialità. I vecchi sono rimasti tagliati fuori. Ma la cosa nell’immediato futuro riguarda anche i giovani. Perché il mondo digitale cambia a una velocità supersonica. Negli Stati Uniti una persona di quarant’anni è già obsoleta. Che cosa ne sarà di queste generazioni che non leggono e non scrivono a mano? Il contatto con la carta e la calligrafia sono fondamentali sia per chi scrive sia per chi legge. Una cosa è leggere una email, fredda per definizione, una cosa è leggere un manoscritto da cui puoi anche intuire la personalità di chi scrive (non a caso esiste una scienza che si chiama ‘grafologia’). Le Università della California e di Ulma e di tante altre importanti città sono tutte giunte alla medesima conclusione: “Scrivere a mano e leggere su carta sono pratiche insostituibili”. Bene ha fatto il ministro dell’Istruzione Valditara a riportare il diario a scuola e a proibire l’uso dei cellulari in classe, anche se usati a scopo didattico. Secondo recenti studi “i disturbi dell’apprendimento degli studenti sono aumentati del 357 per cento e i casi di disgrafia del 163 per cento” (dal Corriere della Sera 26.08). Inoltre l’Organizzazione mondiale della Sanità, l’Unesco, le Nazioni unite, la Commissione europea e anche la commissione Istruzione del Senato italiano hanno individuato nell’abuso degli smartphone la principale causa del crollo verticale delle capacità mentali dei giovani e della crescita esponenziale dei loro disturbi di ordine psicologico come depressione, ansia, aggressività, squilibri alimentari e tendenze suicidarie. Bisognerebbe mettere mano senza por tempo in mezzo a questa gigantesca questione che finisce per destituire l’umano della sua umanità. Ma ci credo poco. Questa corsa veloce, sempre più veloce verso il Futuro, tempo che fra non molto diventerà inesistente, col pretesto di semplificarci la vita ce la sta rendendo insopportabile. E tutte le roboanti dichiarazioni di cui abbiamo cercato di dar conto son solo retorica.

Massimo Fini, Il Fatto quotidiano (18/9/2024)

Canzone del giorno: Le passanti (1974) - Fabrizio De Andrè
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sabato 21 settembre 2024

You Are So Beautiful


Tu porti un tale gioia e felicità

Come in un sogno

Un faro che brilla nella notte

Un regalo che mi ha fatto il cielo

Tu sei così bella per me

Joe Cocker, You Are So Beautiful (1974) - testo di Billy Preston e Bruce Fischer

Canzone del giorno: You Are So Beautiful (1974) - Joe Cocker
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giovedì 19 settembre 2024

La "puntazza" di Totò

Franco Scaldati mi disse: «Totò Schillaci è il più grande palermitano del XX secolo». Ne argomentò l’epica, in un momento in cui un razzismo sopito, che fu infiammabile in un niente, venne sdoganato dall’insorgere della Lega Nord. Negli stadi i tifosi meridionali erano accolti dalle urla «Terroni». In Continente ci fu chi riprese a non affittare le case ai meridionali.  Pare una vita fa, e forse lo è, o forse no, non lo è affatto. Franco Scaldati, serissimo, sosteneva che, quando sarebbe arrivato il suo tempo, la tomba di Totò Schillaci avrebbe dovuto stare in Cattedrale, perché la luce creata da Totò Schillaci era stata sì veloce, un lampo, il bagliore che dura solo una estate, ma che intensità, che potenza, che capacità di rischiarare le tenebre. «Non fanno così le stelle comete?», sosteneva Scaldati, sinceramente commosso da quel corpo basso, magro, segnato dal pitìtto, un fisico nervoso e scattante, incontrollabile nei cambi di direzione, capace di scombussolare l’ordine delle cose. «Totò Schillaci è la taddarìta che non si cattura. E sai perché? Perché ha fame, una fame atavica, ancestrale, figlia della fame dei padri e della fame delle madri, una fame che racconta questa terra e non fa stare fermi, mai, neanche quando si sogna». Poi Scaldati si addumò una sigaretta e non parlammo più. Quel calcio lì, non era ancora il calcio dei miliardari, altri tempi, altre economie, erano gli ultimi anni delle partite in mezzo alla strada, in cui, se la carriera andava bene, un calciatore tornava al paese e si comprava il bar, o s’accattàva un panificio in città. La fame era il tratto in comune dei pochissimi atleti meridionali, la fame che obbliga a scattare prima dei difensori, perché il piede deve colpire la palla prima degli altri piedi, altrimenti digiuno. Ecco perché Totò Schillaci segnò una fucilata di gol di puntazza arraggiàta: cafuddàre la palla in fondo alla rete significava portare il pane a tavola. Il corpo di Totò Schillaci raccontava di un meridione povero, che oggi esiste solo in parte, in cui Cosa Nostra stava ultimando la strategia stragista e la povertà di diversi quartieri era sì evidente ma restava assente dal dibattito pubblico. Era un quadro desolato in cui le occasioni di riscatto erano tendenti allo zero. Eppure, in questo contesto di marginalità concreta, ecco rilucere il miracolo di Totò Schillaci durante i mondiali di Italia 90. Sembrò che per davvero un ultimo, un calciatore che aveva trascorso quasi tutta la carriera in serie B, potesse farcela. Durante quella estate noi eravamo giovani, eravamo ipotesi di cosa saremmo stati, avevamo tutto il tempo per provarci. Giovanni Falcone era in vita, Paolo Borsellino era in vita. Potevamo essere tutto. Potevamo vincere i Mondiali. Potevamo ancora sperare in una vittoria schiacciante su Cosa Nostra. Totò Schillaci incarnò il simbolo di quella speranza, di quella possibilità di immaginare il futuro nelle sue diramazioni migliori. Era letteralmente uno del popolo che stava diventando Re del mondo. I suoi gol di puntazza arraggiàta erano i colpi di fionda del pastore Davide contro la fronte del gigante Golia. Ognuno interpreti la metafora come meglio desidera, il punto dirimente è che quel pastore, dopo avere usato la fionda, si sedeva, prendeva la cetra e componeva i salmi. Oggi, nel nostro presente derelitto, bisognerebbe riprendere a immaginare un presente bello pieno di gol di puntazza arraggiàta, per riuscire a ipotizzare, finalmente, un futuro in cui si cantano i salmi. Sarebbe giusto, farebbe bene, bisognerebbe tornare in piazza a gridare di gioia, come negli anni Novanta, quando Totò Schillaci da Palermo glorificò il «Suca» rendendolo una liberazione catartica da urlare d’estate, tra le cicale che frinivano e il grande mare davanti ancora da attraversare.

Davide Enia, Repubblica – Ed. Palermo (19/9/2024)

Canzone del giorno: All The Way (2006) - Etta James
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mercoledì 18 settembre 2024

La durata dell'esperienza

“La durata dell’esperienza è di 2 ore”. Dovresti vedere, amico lettore, cosa gli ho risposto ai tipi della trattoria che dopo la prenotazione on line hanno inserito questa frase nella conferma. Non faccio il nome del locale perché non vorrei avere qualche cuoco sulla coscienza, è un posto nuovo e poco conosciuto e io critico esplicitamente solo i caporali famosi, i tiranni insensibili in quanto illustri, i Niko Romito, i Norbert Niederkofler... Ma se tutti i clienti rispondessero come me il giorno dopo nessun locale userebbe più la stucchevole parola “esperienza”, ricominciando a dire “pranzo” e “cena”. Se tutti rispondessero come me nessuno oserebbe più imporre durate, o metter fretta a chi chiacchiera al tavolo (l’altra sera, in un altro ristorante, il cameriere continuava a guardare l’orologio: non mi vedrà più). Se tutti rispondessero come me finirebbe in soffitta questa idea casermesca di ristorazione come sopraffazione e umiliazione dell’avventore. Ma nessuno risponde come me, i crapuloni son diventati soldatini, marciano in fila sotto una grande scritta: “Il cliente ha sempre torto”.

Camillo Langone, Il Foglio (29/1/2024)

Canzone del giorno: Experience (1981) - Albert Hammond
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domenica 15 settembre 2024

Analfabetismo religioso

Tanto più avvertiamo il peso della religione contemporanea, tanto meno ci pare di saperne e di capirne. Non conosciamo e non capiamo la religione altrui, quella che più o meno visibile ci abita ormai accanto o che, remota, ci visita dallo schermo dei supporti digitali; ma non conosciamo e non capiamo neppure la nostra religione, quella che abbiamo dimenticato o non riconosciamo più. Ci sommergono informazioni e concetti, immagini e emozioni. Troppo materiale, troppo disparato, troppo nuovo, troppo complesso per riuscire a capire e sapere. Oppure c'è il vuoto. Una tabula rasa in cui non distinguiamo e riconosciamo alcunché. Per mettere ordine, per riempire il nulla, per articolare un significato, ci vorrebbe l'alfabeto giusto. Però non lo abbiamo. Siamo affetti da analfabetismo religioso: non conosciamo e non capiamo la religione, tanto la nostra quanto quella altrui. Ognuno di noi vive a suo modo questa condizione, ma la questione supera di gran lunga l'esistenza individuale: è collettiva, sociale. […] Siamo ben oltre la storica polemica protestante sull'ignoranza dei cattolici. II problema è più vasto e profondo. La sua chiave è in due fenomeni II primo è la secolarizzazione: è diminuita la pratica religiosa, si è ristretto lo spazio del sacro, la fede, e la cultura di cui la fede è espressione, non vengono più trasmesse in famiglia. La religione non è morta, però. Ha resistito, spesso sotterranea; s'è reinventata. Al posto di ciò che si sapeva un tempo c'è il vuoto di ciò che non sappiamo più, di ciò che non sappiamo ancora. Interviene qui il secondo fenomeno, la multi-religiosità. Mentre la religione tradizionale scompariva, si nascondeva osi reinventava, arrivavano nuove religioni nelle persone o sullo schermo. All'ignoranza sulla religione della tradizione si aggiungeva quella sulla religione altrui. Hanno condiviso lo stesso destino — e ora condividono la stessa ignoranza — quanti di noi erano qui da generazioni e quanti stavano arrivando. Abbiamo perso la conoscenza dei nonni perché l'abbiamo lasciata nei Paesi d'origine o nell'Italia cattolica che non c'è più. Ci tocca ora affrontare tutti una inedita multi-religiosità. Ecco il nostro analfabetismo. Non conosciamo più quello che conoscevamo della vecchia religione, quanto meno quello che conoscevamo frequentandola; non conosciamo ancora quella nuova e cioè la vecchia che si reinventa o l'attrai con cui impariamo a coabitare.

Marco Ventura, Corriere della Sera (1/9/2024)

Canzone del giorno: Crooked River (2023) - Eilen Jewell
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venerdì 13 settembre 2024

A Head Full of Dreams

A Head Full of Dreams

Lascia le tue finestre rotte aperte

E nella luce lasciati trasportare

E avrai una testa, una testa piena di sogni

puoi vedere il cambiamento che desideravi

essere ciò che volevi essere.

Coldplay, A Head Full of Dreams (2015)


Canzone del giorno: A Head Full of Dreams (2015) - Coldplay
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mercoledì 11 settembre 2024

Prediche inutili

Prediche inutili le definiva Luigi Einaudi. L'interessante confronto pubblico sullo ius scholae forse lo sarebbe di più se i suoi animatori, da una parte e dall'altra, non si fidassero solo dei loro ricordi scolastici, sapessero che cosa sia oggi la scuola in Italia. Giusta, in linea di principio, l'idea che, cittadinanza o meno, la scuola sia il luogo in cui vengono apprese (in cui si dovrebbero apprendere) le regole della convivenza civile. È alla scuola che si affida il doppio compito di diffondere conoscenze e di educare al rispetto delle norme sociali vigenti. Un doppio compito assai delicato in una società mono-etnica e che lo è ancor di più laddove essa lasci il campo alla multietnicità. La scuola è il lungo in cui si decide il futuro di una società multi-etnica: pacifica convivenza oppure conflitto fra l'etnia maggioritaria e le altre. Sfortunatamente, in Italia lo stato della scuola, e per essa la qualità dei processi educativi, anche nell'età mono-etnica, non interessava a nessuno tranne che agli operatori del settore. Se ne disinteressavano gli intellettuali, troppo snob per abbassare il loro aristocratico sguardo su come funzionavano una scuola elementare o un liceo. Se ne disinteressavano gli italiani in genere, anche quelli con figli, diseducati dall'idea che l'unica cosa che contasse fosse il «pezzo di carta» e non ciò che apprendevano alunni e studenti. Per conseguenza, se ne lavava le mani la classe politica: in democrazia ci si occupa solo di ciò che interessa agli elettori. A questi, per lo più, premevano le promozioni facili, non la qualità dell'istruzione. Naturalmente, il declino demografico ha fatto il resto: se si fanno sempre meno figli, alla scuola l'opinione pubblica assegna un ruolo marginale. Una società che invecchia è interessata solo al presente (pensioni e sanità), non al futuro (i processi educativi). Come si è detto, alla scuola spetterebbe un doppio compito: diffondere conoscenza (istruzione in senso proprio), educare ai principi della convivenza. Doppio compito difficile da svolgere comunque e che diventa difficilissimo, e a volte anche esplosivo in una società multi-etnica. L'unico strumento di cui disponiamo per valutare la qualità delle scuole, e delle conoscenze che sono in grado di trasmettere, sono i test Invalsi. Quale posto avrà nella società del futuro quell'immigrato che ha la sfortuna di frequentare certe scuole in cui si impara poco ma si esce comunque diplomati con il massimo dei voti? Un altro semi-analfabeta, defraudato delle risorse che la scuola avrebbe potuto dargli e che andrà a aggiungersi ai semi-analfabeti indigeni che escono dalle stesse scuole. Tecnicamente è ciò che si definisce «analfabetismo funzionale». Gli effetti negativi di questa impreparazione si ripercuoteranno poi ovunque. Su tutti. Fortunatamente, come proprio i test Invalsi dimostrano, non tutte le scuole sono così. Accanto a insegnanti che dovrebbero essere cacciati ce ne sono molti altri bravi che fanno con competenza, serietà e passione il loro lavoro. Ma i test Invalsi ci dicono anche che se non fosse perché nessuno ha voglia di colpire certe clientele o entrare in rotta di collisione con certi sindacati della scuola, la qualità del corpo insegnante dovrebbe essere da tempo una priorità nelle agende dei governi. E l'opposizione avrebbe dovuto, proprio su ciò, incalzarli. Per le ragioni sopra dette, purtroppo, è quanto, qui da noi, non può accadere. Veniamo al punto più delicato in una società multi-etnica: la trasmissione dei principi della convivenza civile. Gli insegnanti, oggi abbandonati a se stessi, dovrebbero essere addestrati per fronteggiare il problema. Può accadere che un insegnante bravo, anche bravissimo, quando trasmette agli alunni le sue conoscenze specialistiche, commetta errori madornali quando si tratta di gestire in lasse i rapporti inter-etnici. Non è detto che egli contribuisca a preparare un futuro di convivenza pacifica. Si ricordi che quell'aberrazione che è la cancel culture, con la sua ostilità nei confronti della cultura occidentale, è nata, nel mondo anglosassone, proprio nell'ambito delle istituzioni educative (scuole, università). E si sta diffondendo in tutto l'Occidente. Servirebbero insegnanti capaci di trasmettere l'idea che il rispetto delle diverse culture valga solo se e finché non vengono messi in discussione i principi di uguaglianza (dei singoli cittadini, non delle etnie) di fronte alla legge e di tutela della libertà individuale. Principi su cui si fonda la società occidentale e che nessuno ha il diritto di calpestare. Ha scritto Giovanni Sartori, un grande studioso di politica i cui interventi sul Corriere molti lettori ricordano, che mentre il pluralismo è il sale della democrazia, il cosiddetto «multiculturalismo» (che divide la società in tante sotto-società chiuse e non comunicanti) ne è invece la negazione. Occorrono insegnanti che non si battano il petto, che non esternino di fronte agli alunni ridicoli e antistorici rimorsi per le presunte colpe dell'Occidente. E grazie a cattivi maestri di questo tipo che è nata la cancel culture. La loro presenza impedisce che si affermi il rispetto reciproco fra persone di diversa storia e provenienza. Insomma, una società multi-etnica richiede sia da parte degli operatori sia da parte di coloro che governano i processi educativi, competenza, lungimiranza e intelligenza. E lecito chiedersi se ne saremo capaci.

Angelo Panebianco, Corriere della Sera (26/8/2024)

Canzone del giorno: Distracted (1980) - Al Jarreau
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martedì 10 settembre 2024

Matrimonio felice


«Un matrimonio felice può esistere solo tra un marito sordo e una moglie cieca»

Anton Cechov (1860 - 1904)


Canzone del giorno: Marriage (1971) - Peter Allen
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sabato 7 settembre 2024

Inevitabile conclusione

La decisione del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano di dimettersi libera il governo e l’Italia da un imbarazzo durato due settimane. La scelta di un rappresentante del governo costretto a lasciare il proprio incarico non è mai una buona notizia. Perché vuol dire che si è rotto il rapporto di fiducia con il suo presidente del Consiglio. Ma vuol dire, soprattutto, che si è rotto il rapporto di fiducia con i cittadini. E dunque è il Paese a pagarne le conseguenze. L’affaire che ha coinvolto Sangiuliano ha mescolato il privato con il pubblico, ha esposto le istituzioni a una fibrillazione continua, ha provocato un danno grave all’Italia perché tra dieci giorni si svolgerà in Campania un summit importantissimo come il G7 Cultura e l’attenzione internazionale è stata invece monopolizzata da quanto stava accadendo tra lo stesso Sangiuliano e la donna che lui aveva scelto come consigliera per l’organizzazione degli eventi. Il passo indietro del ministro è apparso dunque inevitabile anche alla premier Giorgia Meloni che negli ultimi giorni aveva provato a difenderlo, costringendolo comunque ad andare in tv per spiegare e cercare di chiarire definitivamente la vicenda. In realtà ottenendo l’effetto di un’umiliazione pubblica. «Chiedo scusa alla presidente Giorgia Meloni e al governo per l’imbarazzo che ho causato»: aveva detto mercoledì sera Sangiuliano intervistato dal Tg1 convinto che sarebbe bastato. E invece con il trascorrere delle ore il caso si è arricchito di nuovi dettagli, particolari che riguardano il suo ruolo al ministero e quello di Maria Rosaria Boccia, la donna che aveva deciso di nominare consigliera per i grandi eventi. Elementi di vita pubblica che mostrano l’uso privato della funzione (i viaggi con l’auto di servizio, l’utilizzo della segreteria per la programmazione di trasferte per una persona esterna) ma soprattutto la partecipazione di Boccia all’organizzazione di summit strategici come il G7 Cultura quando non aveva alcun ruolo per esserci. E, circostanza certamente ancora più grave, aver consentito alla donna di ascoltare conversazioni con altri componenti del governo. […] Adesso si volta pagina ma quanto è accaduto deve servire da monito per il futuro. Quando si creano situazioni che mettono in difficoltà le istituzioni, bisogna avere il coraggio di affrontarle in maniera decisa eliminando ciò che può creare un problema di credibilità. L’Italia si trova in un momento storico particolarmente delicato per le questioni da affrontare sia sul palcoscenico internazionale, sia sul versante interno. Ci sono due conflitti in corso e una situazione economica che deve essere gestita con il massimo impegno. I cittadini attendono risposte concrete. È su questo che bisogna concentrarsi.

Fiorenza Sarzanini, Corriere della Sera (7/9/2024)

Canzone del giorno: Inevitabile follia (1988) - Raf
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venerdì 6 settembre 2024

Seminare dubbi

Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze.

Di certezze – rivestite della fastosità del mito o edificate con la pietra dura del dogma – sono piene, rigurgitanti, le cronache della pseudocultura degli improvvisatori, dei dilettanti, dei propagandisti interessati. 

Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva.

Norberto Bobbio (1909 – 2004), Politica e cultura (1955)

Canzone del giorno: Sow Good Seeds (2013) - Mavis Staples
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mercoledì 4 settembre 2024

Razzismo e antirazzismo

Che cos’è il razzismo? Il razzismo è sottolineare l’etnia o la nazionalità di qualcuno quando fa comodo, quando rafforza i propri pregiudizi e attizza quelli altrui. E considerare irrilevante l’etnia o la nazionalità di qualcuno quando non è conveniente farlo, quando non giova alla propria causa. Un caso di scuola è il Salvini. Prendete il suo post di ieri sull’assassino, reo confesso, della ragazza Verzeni: “Fermato Moussa Sangare, origini nordafricane e cittadinanza italiana… ”, e poi i soliti scontati bla bla sulla necessità di una “pena severa”. Provate a chiedere al Salvini se ha mai concepito un post siffatto: “Fermato Filippo Turetta, origini venete e cittadinanza italiana…”. O analogo post in occasione dell’arresto di uno dei tanti femminicidi italiani.Credo  che non capirebbe la domanda. Oppure la riterrebbe pretestuosa, malevola, ostile, essendo invece una domanda oggettiva. Il cui senso è: o sottolinei sempre, in ogni caso, l’etnia dell’autore di un crimine, o non la sottolinei mai, perché se la sottolinei solamente nel caso il criminale sia milanista (se sei interista) o sia interista (se sei milanista) vuol dire che non ti importa un fico secco del crimine, tampoco della vittima: ti importa caricare quel crimine sulle spalle del “nemico”. Ti interessa usarlo a tuo vantaggio. Di conseguenza: l’antirazzismo non consiste nel segnalare, con enfasi e puntiglio, i femminicidi commessi da italiani “ciento pe’ ciento”, come direbbe Abatantuono. Significa segnalare allo stesso modo e considerare ugualmente gravi tutti i crimini, chiunque li commetta.

Michele Serra, L’Amaca – Repubblica (31/08/2024)

Canzone del giorno: The Ace of Swords (1980) - Alan Parson Project
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lunedì 2 settembre 2024

Cinque minutini

Altan, da google.it















Canzone del giorno: Solo3min (2005) - Negramaro
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domenica 1 settembre 2024

Playlist Agosto 2024

     1.      Paul Young, War Games – (Between Two Fires – 1986) – Le olimpiadi

2.      Francesco De Gregori, Compagni di viaggio – (Prendere e lasciare – 1996) – Sospensione

3.      Jethro Tull, Dark Ages – (Stormwatch – 1979) – Alcun limite

4.      Seal, Bring It On – (Seal – 1994) – Statisticamente

5.      Melody Gardot, If The Stars Were – (My One And Only Thrill – 2009) – Eredità

6.      Renato Zero, I migliori anni della nostra vita – (Sulle tracce dell’imperfetto – 1995) – Regine

7.      Tracy Chapman, All That You Have Is Your Soul – (Crossroads – 2014) – Buona giustizia

      8.      Barry White, For Real Chill – (Put Me In Your Mix – 1991) – Vacanza

9.      Arisa, Quante parole che non dici – (Se vedo te – 2014) – Svalutazione della parola

10.   Gary Allan, No Worries – (Set You Free – 2013) – Buonumore

11.   Megadeth, Vortex – (Cryptic Writings – 1997) – Bayesian

12.   Ash, On a Wave – (Meltdown – 2005) – Naufraghi

13.   Brandon Lake, Gratitude – (House Of Miracles – 2020) – Gratitudine

14.   Luca Carboni ft. Pino Daniele, La mia isola – (…le band si sciolgono – 2006) – Lipari