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"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

giovedì 19 settembre 2024

La "puntazza" di Totò

Franco Scaldati mi disse: «Totò Schillaci è il più grande palermitano del XX secolo». Ne argomentò l’epica, in un momento in cui un razzismo sopito, che fu infiammabile in un niente, venne sdoganato dall’insorgere della Lega Nord. Negli stadi i tifosi meridionali erano accolti dalle urla «Terroni». In Continente ci fu chi riprese a non affittare le case ai meridionali.  Pare una vita fa, e forse lo è, o forse no, non lo è affatto. Franco Scaldati, serissimo, sosteneva che, quando sarebbe arrivato il suo tempo, la tomba di Totò Schillaci avrebbe dovuto stare in Cattedrale, perché la luce creata da Totò Schillaci era stata sì veloce, un lampo, il bagliore che dura solo una estate, ma che intensità, che potenza, che capacità di rischiarare le tenebre. «Non fanno così le stelle comete?», sosteneva Scaldati, sinceramente commosso da quel corpo basso, magro, segnato dal pitìtto, un fisico nervoso e scattante, incontrollabile nei cambi di direzione, capace di scombussolare l’ordine delle cose. «Totò Schillaci è la taddarìta che non si cattura. E sai perché? Perché ha fame, una fame atavica, ancestrale, figlia della fame dei padri e della fame delle madri, una fame che racconta questa terra e non fa stare fermi, mai, neanche quando si sogna». Poi Scaldati si addumò una sigaretta e non parlammo più. Quel calcio lì, non era ancora il calcio dei miliardari, altri tempi, altre economie, erano gli ultimi anni delle partite in mezzo alla strada, in cui, se la carriera andava bene, un calciatore tornava al paese e si comprava il bar, o s’accattàva un panificio in città. La fame era il tratto in comune dei pochissimi atleti meridionali, la fame che obbliga a scattare prima dei difensori, perché il piede deve colpire la palla prima degli altri piedi, altrimenti digiuno. Ecco perché Totò Schillaci segnò una fucilata di gol di puntazza arraggiàta: cafuddàre la palla in fondo alla rete significava portare il pane a tavola. Il corpo di Totò Schillaci raccontava di un meridione povero, che oggi esiste solo in parte, in cui Cosa Nostra stava ultimando la strategia stragista e la povertà di diversi quartieri era sì evidente ma restava assente dal dibattito pubblico. Era un quadro desolato in cui le occasioni di riscatto erano tendenti allo zero. Eppure, in questo contesto di marginalità concreta, ecco rilucere il miracolo di Totò Schillaci durante i mondiali di Italia 90. Sembrò che per davvero un ultimo, un calciatore che aveva trascorso quasi tutta la carriera in serie B, potesse farcela. Durante quella estate noi eravamo giovani, eravamo ipotesi di cosa saremmo stati, avevamo tutto il tempo per provarci. Giovanni Falcone era in vita, Paolo Borsellino era in vita. Potevamo essere tutto. Potevamo vincere i Mondiali. Potevamo ancora sperare in una vittoria schiacciante su Cosa Nostra. Totò Schillaci incarnò il simbolo di quella speranza, di quella possibilità di immaginare il futuro nelle sue diramazioni migliori. Era letteralmente uno del popolo che stava diventando Re del mondo. I suoi gol di puntazza arraggiàta erano i colpi di fionda del pastore Davide contro la fronte del gigante Golia. Ognuno interpreti la metafora come meglio desidera, il punto dirimente è che quel pastore, dopo avere usato la fionda, si sedeva, prendeva la cetra e componeva i salmi. Oggi, nel nostro presente derelitto, bisognerebbe riprendere a immaginare un presente bello pieno di gol di puntazza arraggiàta, per riuscire a ipotizzare, finalmente, un futuro in cui si cantano i salmi. Sarebbe giusto, farebbe bene, bisognerebbe tornare in piazza a gridare di gioia, come negli anni Novanta, quando Totò Schillaci da Palermo glorificò il «Suca» rendendolo una liberazione catartica da urlare d’estate, tra le cicale che frinivano e il grande mare davanti ancora da attraversare.

Davide Enia, Repubblica – Ed. Palermo (19/9/2024)

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