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"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

sabato 28 settembre 2024

Il lavoro sporco

Trasformare una guerra per la sopravvivenza d’Israele nell’innesco di una guerra mondiale, come ha fatto ieri dal podio delle Nazioni Unite, è il servizio peggiore che Benjamin Netanyahu poteva rendere al suo popolo. Suona come una chiamata alle armi di tutto l’Occidente – ammesso che una tale entità ancora esista, che sia pronta a lasciarsi trascinare, e che Israele ne faccia per davvero parte – in un conflitto diretto con l’Iran. È dal pomeriggio del 7 ottobre dell’anno scorso, a poche ore dal massacro perpetrato da Hamas e dall’umiliazione subita dagli apparati di sicurezza israeliani, che Netanyahu se lo sente ripetere in casa dai suoi ‘falchi’: non perdiamo tempo sfiancandoci nel ginepraio di Gaza, usiamo la nostra superiorità militare per sferrare un colpo definitivo ai mandanti di Hamas, che stanno a Teheran. Ancora nei giorni scorsi, le pressioni si erano ripetute: che senso ha attaccare gli Hezbollah che ci sparano addosso missili e droni dal Libano se prima non distruggiamo la potenza che li rifornisce, cioè l’Iran? Netanyahu è un pavido, tutt’altro che un guerriero. Spregiudicato e cinico, per anni si è accontentato di sottomettere i civili palestinesi e misurarsi con formazioni terroristiche, Hamas e Hezbollah, che rispetto a Tsahal combattono comunque in posizione d’inferiorità. Ma ora, dopo aver condotto in un vicolo cieco Israele, è diventato anche un leader disperato e affetto da mitomania, consapevole che neanche l’offensiva in Libano e la morsa di ferro imposta alla Cisgiordania, dopo la carneficina di Gaza, basteranno a restituire sicurezza ai suoi cittadini. Punta allora al grande azzardo: mettere definitivamente fuori gioco l’Onu, giungendo a insolentirlo di persona – terrapiattisti, antisemiti! – e convincere gli Usa, insieme alle destre nazionaliste europee, di non avere altra scelta che diventare compartecipi di un’avventura temeraria: spazzare via l’Iran degli ayatollah per pacificare il corridoio che va dall’Oceano Indiano al Mediterraneo. Così si romperebbe la solitudine d’Israele di cui scrive il filosofo Bernard-Henry Lévy, vaneggiando sulla necessità di riunire le potenze del cosiddetto “mondo libero” nel combattimento contro l’asse del male formato da Iran, Russia, Cina e Corea del Nord. Solo dei fanatici possono credere che l’allargamento a macchia d’olio della guerra possa rappresentare il presupposto della salvezza d’Israele. Se Hamas si è confermato una serpe in seno ai palestinesi, che mai avevano sofferto quanto gli è toccato dopo il 7 ottobre; se Hezbollah è la disgrazia di un paese-mosaico come il Libano; altrettanto miope è il consenso fornito dagli israeliani al “lavoro sporco” del loro esercito e della loro intelligence. Si capisce che siano esasperati dopo un anno infernale, fallace è la speranza di infliggere un colpo definitivo al nemico: questo “lavoro sporco” non finisce mai. Aggrapparsi alla sola capacità di fare paura, mostrarsi spietati, non ha mai salvato una nazione. Resta da chiedersi a chi piacerà il messaggio bellicoso lanciato da Netanyahu a New York. Dietro al quale si riconosce una visione apocalittica non solo del futuro del popolo ebraico, ma del mondo intero. L’11 settembre scorso, Donald Trump, di fronte a una platea di ebrei americani, aveva lanciato una cupa profezia: “Se al posto mio venisse eletta presidente Kamala Harris, fra due anni Israele non esisterà più”. Propaganda elettorale, d’accordo, tant’è che ha promesso anche di replicare il blocco dei visti d’ingresso negli Usa da sette paesi islamici, da lui ordinato nel 2017, estendendolo stavolta ai palestinesi in fuga da Gaza perché zona infestata dal terrorismo. Da demagogo provetto, Trump sapeva di far leva su un sentimento d’angoscia crescente nel mondo ebraico che ha visto Israele reagire inferocito alla ferocia di chi vuole distruggerlo ma, ciò facendo, rendere il proprio futuro ancor più malcerto. Il probabile futuro presidente Usa fa leva su un’opinione pubblica favorevole al disimpegno militare all’estero (con Putin ci si può mettere d’accordo, è più affidabile di Zelensky) ma portata a demonizzare in un unico calderone migranti, terrorismo, arabi, islamici. Non a caso dalla Casa Bianca aveva messo nel mirino l’Iran. Da qui il legame con Netanyahu, di cui apprezza il culto della forza e la spregiudicatezza. Da qui, più di recente, il patto di collaborazione tecnologica per “deradicalizzare il Medio Oriente” stretto dal medesimo Netanyahu con Elon Musk, sorvolando sulle recenti uscite antisemite dell’interessato. I portavoce della destra americana, come in Europa fa solo Orbán, hanno se non altro il pregio della chiarezza. Lo dicono e lo ripetono: “Non poniamo limiti all’azione militare di Israele, lasciamogli finire il suo lavoro. È un lavoro sporco ma lo sta facendo anche per noi”. Dopo il discorso di ieri all’Onu, spero che questa pazza idea sparisca dalla testa dei nostri governanti.

Gad Lerner, Il Fatto quotidiano (28/9/2024)

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