Se hanno ragione coloro che pensano che siamo ormai entrati in un mondo multipolare, con tante grandi e medie potenze che contano e competono fra loro sul piano globale e su quello regionale, una democrazia come la nostra, con le nostre tradizioni, corre serissimi rischi. Il principale è che la nostra frammentazione politica, il nostro multipartitismo esasperato, sia sfruttato da qualunque potenza abbia interesse a influenzare le scelte italiane. Ne seguirebbe una situazione per cui diversi nostri partiti, o correnti di partito, diventerebbero i referenti (i clienti) di una pluralità di grandi e medie potenze. Rendendo l’Italia incapace di perseguire i propri interessi nazionali.
Angelo Panebianco, Corriere della Sera (23/6/2023)
Canzone del giorno:Things Ain't Like They Used to Be (2008) - The Black Keys
In Russia, ora c’è un campo “lealista” e un campo “ribelle”.
Sabato 24 giugno, l’ammutinamento guidato da Evgenij Prigožin e dalla sua
milizia Wagner ha preso il controllo di una città di un milione di abitanti,
Rostov sul Don, e ha preso in ostaggio alcuni generali. Questo sconvolgimento è
avvenuto durante la notte, dopo che il giorno precedente Prigožin aveva
ordinato a “25mila combattenti” di tornare dal fronte ucraino per “liberare il
popolo russo” e “riportare l’ordine nel paese”. Questo fa precipitare l’intera
Russia in un enorme buco nero. A Mosca le cose vengono dette altrettanto
chiaramente. Da venerdì sera, tutte le istituzioni del paese, dal Cremlino al
ministero della difesa, dai servizi segreti dell’Fsb al Comitato investigativo,
usano le stesse parole inaudite: “ribellione armata”, “colpo di stato
militare”. Ma Prigožin si difende, insistendo sul fatto che il suo obiettivo
sono solo i vertici militari, non Vladimir Putin. Ma l’ascesso che si è formato
in questi mesi è troppo grande per essere curato e la sfida allo stato
impossibile da ignorare. Sabato mattina, Vladimir Putin non ha provato a
nascondere la gravità del momento. In un solenne discorso di cinque minuti,
durante il quale non ha mai fatto il nome del suo ex chef, il presidente ha parlato
di un “tradimento” commesso in nome di “ambizioni sproporzionate” e di una
“pugnalata alle spalle” arrivata in un momento in cui la Russia stava
“resistendo all’aggressione dei neonazisti e dei loro padroni”. Esortando il
popolo russo a “unirsi”, Putin ha avvertito che le risposte dello stato saranno
“dure”, promettendo “punizioni inevitabili a coloro che hanno consapevolmente
intrapreso la strada del tradimento”. […] Fatto forse ancora più preoccupante
per Mosca, Prigožin non avanza alcuna richiesta specifica. Nei suoi colloqui
con i generali ha criticato l’esercito per aver “bombardato i civili”. Venerdì
23 giugno, prima che la crisi degenerasse, aveva già messo in dubbio le basi
dell’”operazione militare speciale”, affermando che dal 2014 l’Ucraina si era
limitata a colpire le posizioni militari nel Donbass e che Kiev non aveva
“alcuna intenzione di attaccare la Russia nel 2022 con l’aiuto della
Nato”. […] Le cose si sono deteriorate a un ritmo straordinario. Tre
settimane fa, la cattura di un alto ufficiale dell’esercito da parte della
Wagner, sullo sfondo di un presunto scontro a fuoco tra le due fazioni, era già
una notizia sensazionale. Prigožin aveva già intenzione di provocare questo
ammutinamento, che sembrava l’escalation definitiva? Si è forse lasciato
sopraffare dagli eventi, visto che il suo primo video, venerdì scorso, è stato
pubblicato dopo quelli che, a suo dire, erano stati attacchi aerei “molto
letali” dell’esercito russo contro le basi della Wagner? Oppure stava reagendo
alle voci secondo cui la sua avventura stava per finire? Il metodo –
sbaragliare gli avversari per paralizzarli – ha finora funzionato bene per lui,
in assenza di una seria resistenza. Oltre al rischio di arresto del suo
leader, auspicato da gran parte dell’élite politica e militare, la Wagner vedeva
il cerchio stringersi con l’avvicinarsi della scadenza di un ultimatum fissato
dall’esercito: entro il 1° luglio la milizia, come le altre “formazioni
volontarie”, doveva firmare un “contratto” con il ministero della difesa per
legalizzare la propria situazione. Vladimir Putin aveva approvato pubblicamente
la mossa e per una volta era uscito dal suo silenzio.
Benoit Vitkine, Le Monde – 24/06/2023 (Traduzione di Stefania
Mascetti)
Canzone del giorno:Bird Of Prey (1971) - Uriah Heep
Le speranze sono ormai tramontate. I rottami
individuati in fondo al mare sono quelli del Titan. Il senso di sconfitta è
enorme, direttamente proporzionale alle impressionanti forze messe in campo per
le ricerche del piccolo sommergibile: boe acustiche per captare eventuali
rumori, sottomarini e navi arrivati dall’Europa e dotati di robot in grado di
immergersi a profondità estreme, numerose imbarcazioni della Guardia costiera
statunitense, perfino tre aerei per pattugliare il braccio di mare… Una corsa contro
il tempo senza limiti di budget e purtroppo rivelatasi inutile nel salvare
cinque vite ore sperse in fondo all’Atlantico, forse naufraghe per l’eternità. Shahzada,
uomo d’affari inglese di origini pachistane e il figlio 19enne Suleman; il
miliardario inglese Hamish; lo studioso francese Paul-Henri; e infine Stockton,
l’organizzatore della spedizione sulle tracce del Titanic. Ciascuno di loro ha
un nome, un volto, una storia. Non ha goduto dello stesso privilegio la gran
parte delle vittime di un altro naufragio, accaduto quasi in contemporanea con
quello del piccolo Titan. Fin dal numero, ancora all’ingrosso: oltre agli 82
morti accertati e ai 104 salvati, si stimano più di 600 persone disperse. I
corpi di diverse centinaia di loro, donne e bambini, potrebbero essere ancora
intrappolati nella stiva del peschereccio colato a picco al largo delle coste
greche nella notte tra il 15 e il 16 giugno. Se il numero delle vittime è
ancora incerto e i loro nomi non saranno mai conosciuti, sappiamo però che alcuni
si sono imbarcati per fame, altri per persecuzione, altri perché qualcosa – una
speranza – e qualcuno – un familiare - li attendeva sull’altra sponda del
Mediterraneo. Non per un’avventura, non per una esplorazione, ma per fame, per
speranza. Per futuro. E però, che destino diverso, da questa parte del
mondo. Naufraghi restati senza aiuti, o perfino vittime, secondo le
testimonianze dei sopravvissuti raccolte anche da Avvenire, di soccorsi
tardivi, inadeguati, insufficienti, perfino maldestri. Naufraghi per la cui
salvezza nessuno ha fatto il conto alla rovescia: quanto tempo rimane prima che
lo scafo si ribalti? Quanto ossigeno – anche qui, l’ossigeno! – resta prima che
nella stiva bambini e donne inizino a soffocare? Quanto tempo possono stare in
mare prima di arrendersi al freddo e al buio coloro che si sono buttati giù
dalla barca? Il contrasto è straziante, a pensarci fa male. Nell’Atlantico un
copione da disaster movie sta tenendo da giorni l’opinione pubblica mondiale
con il fiato sospeso: cinque agiati occidentali alla ricerca dell’avventura
estrema a bordo di un piccolo cilindro a tenuta stagna, la scomparsa dai radar,
i rumori captati dagli abissi come disperati Sos, e poi la corsa contro il
tempo, la mission impossible dei soccorsi, infine l’individuazione dei rottami.
È tutto come un film, peraltro già vissuto tante volte in situazioni anche
molto differenti: ricordiamo l’angoscia suscitata dal dramma dei 118 uomini
intrappolati nel sommergibile della Marina russa Kursk nel 2000, e, di contro,
l’entusiasmo globale per il salvataggio di 12 giovani thailandesi sepolti per
15 giorni in una grotta nel 2018. Angoscia ed entusiasmo legittimi e
condivisibili: ogni vita umana è preziosa, salvarne anche una sola vale
qualsiasi sforzo e la perdita anche di una sola causa dolore. Ma allora, perché
questo tiepido sdegno per l’ennesima strage nel Mediterraneo? Perché questa
labile partecipazione a un lutto che dovrebbe essere universale? Perché questa
corta memoria per una carneficina che – lo dirà con certezza l’inchiesta –
forse è stata causata anche da negligenza, se non addirittura dalla volontà di
spingere lontano, di non vedere, di scaricare la responsabilità ad altri? Il
mondo trattiene il fiato per cinque uomini naufraghi in fondo all’Oceano Atlantico
e si gira distratto dall’altra parte di fronte al Mediterraneo diventato un
cimitero. Forse perché, come si è letto sui social, i morti davanti alla
Grecia, così come quelli davanti alla Libia, alla Tunisia, a Lampedusa, alla
Calabria, non erano naufraghi. Erano poveri.
Antonella Mariani, Avvenire (23/06/2023)
Canzone del giorno:Un filo di seta negli abissi (2013) - Elisa
INTERPRETI: Barbara Ronchi, Fausto Russo Alesi, Paolo Pierobon, Leonardo Maltese, Filippo Timi, Fabrizio Gifuni, Samuele Teneggi, Aurora Camatti, Paolo calabresi
SCENEGGIATURA: Marco Bellocchio, Susanna Nicchiarelli
FOTOGRAFIA: Fabrizio Di Giacomo
MUSICHE: Fabio Massimo Capogrosso
MONTAGGIO: Francesca Calvelli, Stefano Mariotti
DURATA: 125'
USCITA: 25/5/
Ancora una volta l'abilità anticonformista di Marco
Bellocchio si manifesta in maniera prodigiosa. In “Rapito” decide di
affrontare, con la maestria cinematografica che lo contraddistingue, un tema a
lui caro ossia le dinamiche della psiche correlate al sadismo implicito
nell'esercizio del potere. Il regista ripercorre lo stravolgimento e la
sofferenza familiare di una modesta famiglia ebrea bolognese di metà ‘800
(l’Emilia era ancora sotto l’egida del Papa Re), costretta a consegnare
all’Inquisizione cattolica il loro piccolo figlio di 6 anni perché battezzato,
a loro insaputa, da una domestica. Un avvenimento realmente accaduto alla famiglia
Mortara in quel lontano 1858 e che, a quei tempi, suscitò molte polemiche. La “pratica” della conversione degli ebrei (colpevoli per
secoli di essere considerati gli ignobili assassini di Cristo) attraverso la
sottrazione di moltissimi bambini alle famiglie continuava, infatti, a essere
esercitata dalla Stato Pontificio anche nel periodo preunitario.
Con un immutato vigore narrativo e una mirabile
ricostruzione ambientale, Marco Bellocchio mette allo scoperto i meccanismi del
potere (religioso in questo caso) e con spietata scrupolosità riesce a
comunicare il profondo dolore di chi è violentato nei propri sentimenti. I
genitori del bimbo “rapito”, magistralmente interpretati da Barbara Ronchi e
Fausto Russo Alesi, offrono uno spaccato realistico di ostinazione e disperazione.
Il loro coraggio, però, non basta in quanto risulta sempre più
mortificato dalla sproporzione delle parti. Il potere religioso ha i suoi
freddi meccanismi. Il cinismo dell’Inquisitore che strappa il bambino alla
famiglia incredula (un tetro Fabrizio Gifuni) e il comportamento inquieto
nonché sprezzante di Papa Pio IX, interpretato in maniera convincente da Paolo
Pierobon, rivelano l’ipocrisia e le contraddizioni del potere temporale che di
lì a poco avrebbe portato alla capitolazione dello Stato Pontificio.
Alla fine, il Destino ha bussato anche alla sua porta. Non a Villa San Martino, che per quasi trent'anni è stata la quinta sontuosa dove lui stesso aveva trasferito e trasformato per sempre l'esecrato "teatrino della politica". Ma al San Raffaele, il luogo di una sofferenza fisica che ha negato e fuggito sempre, in un'esistenza epica durata 86 anni che non contemplava la vulnerabilità e la fallibilità degli umani. Alla fine Berlusconi è morto ll, lontano dai suoi cani e dai suoi quadri, in quella lussuosa dependance ospedaliera che ha copiosamente finanziato e che l'ha curato e accudito ogni volta, per la tendinite o l'uveite, per il cancro o il Covid. […] Berlusconi è esistito anche senza Forza Italia: prima della politica c'erano già sia il costruttore seriale che ha sfornato Milano Due sia il tycoon televisivo che ha stravolto i nostri usi culturali e i nostri consumi commerciali. Ma Forza Italia non sarebbe mai esistita senza Berlusconi. Questo destino inscindibile è l'essenza stessa del "partito personale" che lui ha fondato e plasmato a sua immagine e somiglianza (e nel quale si sono beatamente rispecchiati corrivi cantori e cattivi imitatori, in Italia e nel mondo). […] Berlusconi è stato tutto e il contrario di tutto. Presidente Imprenditore e Presidente Operaio, élite e anti-establishment, gas russo e editto bulgaro, premierato forte e devolution, Pratica di Mare e Onna. Un impasto di scintillante modernità e di irridente opportunismo. Un irresistibile e incorreggibile Arcitaliano, col sole in tasca e il coltello tra i denti. Così ha conquistato milioni di italiani, rispecchiandone le virtù (poche) e ivizi (tanti) . Per questo Forza Italia è stato davvero l'unico "partito della Nazione" della Seconda Repubblica. Per questo finiscono insieme, ora che il vecchio Caimano ha smesso di combattere. E per questo, proprio come il fascismo al tempo di Piero Gobetti, anche il Berlusconismo è stato davvero un'altra "autobiografia della Nazione".
Massimo Giannini, La Stampa 13/06/2023
Canzone del giorno:Closing Time (1973) - Tom Waits
Capita raramente che un presidente del Consiglio si rechi due volte in una
settimana nello stesso Paese. È successo a Giorgia Meloni, in viaggio a Tunisi
sia in visita bilaterale martedì scorso, sia oggi, insieme alla presidente della
Commissione europea Ursula von der Leyen e al premier olandese Mark Rutte. Due
missioni in sei giorni danno il senso plastico dell'importanza della Tunisia
per il governo italiano. Ci sono ottimi motivi per lavorare pancia a terra
sulla Tunisia. Il Paese è sull'orlo di un'implosione economica e politica. Un
tempo, la Tunisia era l'apripista delle primavere arabe. Qui, nel dicembre
2010, il venditore ambulante Mohamed Bouazizi si diede fuoco in nome della
dignità e dei diritti rubati, innescando rivoluzioni che scalzarono dittatori
al potere da decenni in tutta la regione. Sempre la Tunisia è rimasta, per
anni, l'unica luce democratica in un Medio Oriente ripiombato nel buio
dell'autoritarismo. Ora, però, il Paese nordafricano si è adeguato ai suoi
vicini, spesso superandoli in quanto a repressione. Il presidente Kaïs Saïed,
eletto nel 2019, dopo aver rimosso il governo e sospeso il Parlamento nel 2021,
ha sciolto definitivamente la legislatura e il Consiglio della magistratura,
assegnandosi poteri illimitati in una Costituzione votata da un misero 30%
degli elettori, e imprigionando massicciamente oppositori politici, giornalisti
ed esponenti della società civile. Ma a differenza di altri dittatori, Saïed
sta anche portando il Paese al collasso economico. Concentrato
sull'accentramento dei poteri nelle proprie mani, il leader tunisino ha
ignorato le promesse economiche che lo avevano reso popolare nel 2019. Saïed
aveva vinto le elezioni presentandosi, messianicamente, come il salvatore
dell'economia tunisina, afflitta da una crisi strutturale sin dai tempi della
rivoluzione, acuita poi dalla pandemia dieci anni dopo. Oggi la situazione è
ancora più drammatica, e non a caso la popolarità del presidente è precipitata.
A questo si aggiunge il sovranismo populista del dittatore tunisino, che
rifiuta ostinatamente le condizioni del prestito di 1,9 miliardi di dollari del
Fondo monetario internazionale, unica ancora di salvezza per scongiurare la
bancarotta. Un'implosione della Tunisia, che destabilizzerebbe ulteriormente i
suoi vicini, sarebbe catastrofica. È dunque giusta, anzi sacrosanta,
l'attenzione del governo italiano per la crisi tunisina, ed è ottimo che Meloni
abbia contribuito ad aprire gli occhi all'Europa, come risulta evidente dalla
missione delle due presidenti a Tunisi, insieme a Rutte, "in quota"
Nord Europa. Peccato, però, che l'approccio italiano vada ribaltato. Il governo
è preoccupato, anzi terrorizzato, da una cosa quando pensa alla Tunisia: la
migrazione. A differenza dell'esecutivo giallo-verde di qualche anno fa per cui
lo spauracchio dell'immigrazione faceva in qualche modo gioco, Meloni sa che un
aumento dei flussi irregolari non è nei suoi interessi. Non a caso la virata di
180 gradi sulla politica migratoria europea, che il governo ha accettato
controvoglia qualche giorno fa, sbloccando uno stallo che durava da sette anni.
Arrivata al governo, Giorgia Meloni ha preso atto che la geografia non si
cambia e che l'Italia ha bisogno dell'Europa se vuole gestire la migrazione,
nonostante le leve limitate di cui dispone Roma. Quindi, meglio un Patto
europeo sulla migrazione subottimale per l'Italia, che niente. Ma mentre la
preoccupazione italiana per la migrazione ha portato Roma ad abbassare (anche
troppo) la cresta in Europa, il governo sta traducendo il panico da
immigrazione in un approccio servile nei confronti di Saïed. L'allarme Tunisia
è scattato, a Roma, quando gli sbarchi sono aumentati nei primi mesi dell'anno.
Tra gennaio e aprile sono stati oltre 40 mila gli arrivi dalla Tunisia, quadruplicando
i numeri dei due anni passati nello stesso periodo. Ed ecco che Roma si è resa
portavoce di Tunisi con Washington e Bruxelles, sostenendo la causa di Saïed
per il rilascio pressoché incondizionato degli aiuti dell'Fmi. Il problema non
è il rilascio dei fondi, di cui la Tunisia ha un disperato bisogno, ma il fatto
che Roma si presti a chiederli, a nome di Tunisi, in cambio di nulla. A questo
qualcuno replicherà che non è vero. Basterebbe guardare i flussi migratori di
maggio, magicamente in forte calo, come sottolineato da Meloni stessa. Ma non è
proprio questa la pistola fumante che dovrebbe destare sospetti? È evidente che
Saïed ha compreso la vulnerabilità del governo italiano sul tema migratorio,
manipolando i flussi per assicurarsi i servizi di Roma per riacquistare voce
internazionale. C'è chi dirà che bisogna agire nel nome del pragmatismo: Saïed
sarà pure un brutto ceffo, ma con lui tocca fare i conti. È vero che il
presidente tunisino è l'unico cavallo in corsa (d'altronde, in una dittatura non
ce ne sono altri), ma questo non gli impedisce di essere un cavallo perdente. È
nel nome del pragmatismo, ma quello sano e non impanicato, che Roma dovrebbe
spendersi per un ingaggio dell'Ue non puntando su Saïed per racimolare le
briciole (reversibili) sulla migrazione, bensì sulle riforme economiche e
democratiche. Quelle senza le quali la Tunisia, Saïed o meno, sprofonderà nel
baratro.
L'intelligenza artificiale, che sarà comunque il motore del nostro futuro, un grande produttore di progresso, potrebbe anche diventare una minaccia per la sopravvivenza dell'umanità. Cercare di mitigare i rischi di estinzione del genere umano dovrebbe diventare una priorità planetaria come lo sono gli sforzi per evitare una guerra nucleare. Non è la prima volta che si parla di una super intelligenza capace di distruggere gli stessi uomini che l'hanno creata appunto limitandoci all'ultimo decennio e a personaggi noti, moniti simili sono venuti da Elon Musk, da Bill Gates, aa Jack Ma di Alibaba e dallo scienziato Stephen Hawking, scomparso nel 2018. L’allarme lanciato ieri dal Center for AI Safety, però, ha un’eco molto più vasta per due motivi: intanto perché da sei mesi, con la rapida diffusione di chat GPT, l'intelligenza artificiale (AI) è passata da materia per pochi eletti (e, quindi, ignorata dai più) a tema di discussione quotidiana. Ma a farci riflettere è soprattutto il fatto che a firmare un documento che lancia un monito estremo e chiede ai sistemi politici e sociali di intervenire sono 350 imprenditori, ricercatori ed esperti del settore, compresi personaggi che oggi si contendono il primato dello sviluppo dell'AI. (…) I rischi per la sopravvivenza dell'umanità sono rimasti sullo sfondo, anche perché sono in pochi a credere che l'AI - basata su un volume immenso di dati e una capacità di analizzarli e selezionarli usando metodi probabilistici - possa arrivare a un livello di consapevolezza analogo a quello degli umani. E a desiderare di sopprimerli o renderli schiavi. Chi teme il peggio, però, hai in mente altri scenari: una super intelligenza priva di coscienza ma più potente di quella umana per capacità di analisi dei dati e rapidità di esecuzione che stermina il genere umano (magari diffondendo agenti patogeni) perché abbiamo incautamente affidato alle macchine un compito rispetto al quale l'uomo è un ostacolo da rimuovere. E la mancanza di coscienza delle macchine potrebbe essere non un ostacolo ma un incentivo allo sterminio. Un esempio raggelante di Musk: “Quando costruiamo una strada seppelliamo sotto l'asfalto un gran numero di formicai. Non siamo nemici delle formiche, ma è inevitabile sopprimerle se vogliamo la strada. Noi potremmo diventare formiche per l’AI”.
Un bel ragazzo dalla
faccia pulita ed elegante ha questo fastidio, una noiosa che aspetta un figlio,
una bella ragazza col pancione di sette mesi. Ventinove anni, Giulia
Tramontano, bei capelli biondi, e al mare sotto il grande cappello pare persino
felice, con le mani su quello che dovrebbe essere il suo bambino. L’Alessandro vive con lei, non c’è di che preoccuparsi, ci
si può anche non sposare, oggi le coppie funzionano così. Ce n’è un altro di
bambino più grandino, sempre di Alessandro, avuto da una ragazza che fa la
brava e vive per conto suo, imprestandogli il piccino ogni tanto. L’Alessandro
si chiama Impagnatiello, ha un lavoro molto chic, all’Armani Bamboo, prepara
liquori squisiti, bravo ad essere guardato dalle signore. Sembra un principe, e
abita a Senago, un paesino vicino a Milano dove anche la sua famiglia vive.
Adesso ha questo ingombro di un altro bambino, e lo aspetta una ragazza italo-inglese
di 23 anni, è proprio lì, che lavora con lui. Deve essere lui un tipo
distratto, mai un preservativo, perché tutti lo desiderano e tutti vanno a
letto con lui e tutte restano incinte. Piace, lui e le donne, lui e le belle
ragazze, e si sa come va il mondo, oggi si scopa appena si può, si fa sesso e
guarda caso, mai una pillola o altro. Lui è carino, ha un buon lavoro, prima o
poi bisogna sposarsi. Giulia Tramontano vive con lui da un anno, però lui
preferisce l’altra, più giovane, più carina. Dovendo avere un figlio, forse è
meglio questa nuova. Con quella col pancione ci vive, con l’altra no. Però lei
lo scopre e fa ciò che oggi le donne fanno, contatta la signora e si trovano
d’accordo. Quello scemo lì lo pianteranno, troppo pasticcione, e poi perché
quelle bugie? Alessandro è un vero bugiardo, anzi, è stato
stupidamente stupido, come tutti quelli che credono di essere intelligenti:
bastava che si capissero, e dopo qualche scenata, e magari qualche schiaffo, si
sarebbero messi d’accordo. Ma lui è un uomo, un vero uomo, nasconde la sua
natura che è quella di chi è vile, un profondissimo vile. Come dire a una
ragazza incintissima: guarda, mi sono stufato, tieni il bambino e vai via? Ma
c’è un’altra via, più semplice senza problemi: l’ammazzo e la nascondo e poi le
do fuoco e poi io piangerò e lei dove sarà finita? Devi solo accoltellarla
senza rabbia, senza perdere la testa. A quel bambino neanche ci pensa, quel
bambino che è dentro la pancia è vivo. Non una parola, non un’idea, non un
gesto di pena per quella creatura che muore e non sa perché. Non so se è un
delitto può essere più ignobile di un altro, ma questo è spaventoso. Chissà
quanti bambini avrebbe fatto l’Alessandro, se ne avesse avuto il tempo. Ecco,
forse l’abbiamo trovata la ragione delle donne da eliminare, troppe donne
uccise. “Smettetela di ucciderci“, dice su questo giornale Arianna Farinelli,
che ha contato 37 donne ammazzate in ambito familiare e affettivo, su 45,
quest’anno. Perché si fa prima a toglierle di torno in piena viltà.
Natalia Aspesi, la Repubblica (4/6/2023)
Canzone del giorno:Woman is The Nigger Of The World (1972) - John Lennon