Capita raramente che un presidente del Consiglio si rechi due volte in una settimana nello stesso Paese. È successo a Giorgia Meloni, in viaggio a Tunisi sia in visita bilaterale martedì scorso, sia oggi, insieme alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e al premier olandese Mark Rutte. Due missioni in sei giorni danno il senso plastico dell'importanza della Tunisia per il governo italiano. Ci sono ottimi motivi per lavorare pancia a terra sulla Tunisia. Il Paese è sull'orlo di un'implosione economica e politica. Un tempo, la Tunisia era l'apripista delle primavere arabe. Qui, nel dicembre 2010, il venditore ambulante Mohamed Bouazizi si diede fuoco in nome della dignità e dei diritti rubati, innescando rivoluzioni che scalzarono dittatori al potere da decenni in tutta la regione. Sempre la Tunisia è rimasta, per anni, l'unica luce democratica in un Medio Oriente ripiombato nel buio dell'autoritarismo. Ora, però, il Paese nordafricano si è adeguato ai suoi vicini, spesso superandoli in quanto a repressione. Il presidente Kaïs Saïed, eletto nel 2019, dopo aver rimosso il governo e sospeso il Parlamento nel 2021, ha sciolto definitivamente la legislatura e il Consiglio della magistratura, assegnandosi poteri illimitati in una Costituzione votata da un misero 30% degli elettori, e imprigionando massicciamente oppositori politici, giornalisti ed esponenti della società civile. Ma a differenza di altri dittatori, Saïed sta anche portando il Paese al collasso economico. Concentrato sull'accentramento dei poteri nelle proprie mani, il leader tunisino ha ignorato le promesse economiche che lo avevano reso popolare nel 2019. Saïed aveva vinto le elezioni presentandosi, messianicamente, come il salvatore dell'economia tunisina, afflitta da una crisi strutturale sin dai tempi della rivoluzione, acuita poi dalla pandemia dieci anni dopo. Oggi la situazione è ancora più drammatica, e non a caso la popolarità del presidente è precipitata. A questo si aggiunge il sovranismo populista del dittatore tunisino, che rifiuta ostinatamente le condizioni del prestito di 1,9 miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale, unica ancora di salvezza per scongiurare la bancarotta. Un'implosione della Tunisia, che destabilizzerebbe ulteriormente i suoi vicini, sarebbe catastrofica. È dunque giusta, anzi sacrosanta, l'attenzione del governo italiano per la crisi tunisina, ed è ottimo che Meloni abbia contribuito ad aprire gli occhi all'Europa, come risulta evidente dalla missione delle due presidenti a Tunisi, insieme a Rutte, "in quota" Nord Europa. Peccato, però, che l'approccio italiano vada ribaltato. Il governo è preoccupato, anzi terrorizzato, da una cosa quando pensa alla Tunisia: la migrazione. A differenza dell'esecutivo giallo-verde di qualche anno fa per cui lo spauracchio dell'immigrazione faceva in qualche modo gioco, Meloni sa che un aumento dei flussi irregolari non è nei suoi interessi. Non a caso la virata di 180 gradi sulla politica migratoria europea, che il governo ha accettato controvoglia qualche giorno fa, sbloccando uno stallo che durava da sette anni. Arrivata al governo, Giorgia Meloni ha preso atto che la geografia non si cambia e che l'Italia ha bisogno dell'Europa se vuole gestire la migrazione, nonostante le leve limitate di cui dispone Roma. Quindi, meglio un Patto europeo sulla migrazione subottimale per l'Italia, che niente. Ma mentre la preoccupazione italiana per la migrazione ha portato Roma ad abbassare (anche troppo) la cresta in Europa, il governo sta traducendo il panico da immigrazione in un approccio servile nei confronti di Saïed. L'allarme Tunisia è scattato, a Roma, quando gli sbarchi sono aumentati nei primi mesi dell'anno. Tra gennaio e aprile sono stati oltre 40 mila gli arrivi dalla Tunisia, quadruplicando i numeri dei due anni passati nello stesso periodo. Ed ecco che Roma si è resa portavoce di Tunisi con Washington e Bruxelles, sostenendo la causa di Saïed per il rilascio pressoché incondizionato degli aiuti dell'Fmi. Il problema non è il rilascio dei fondi, di cui la Tunisia ha un disperato bisogno, ma il fatto che Roma si presti a chiederli, a nome di Tunisi, in cambio di nulla. A questo qualcuno replicherà che non è vero. Basterebbe guardare i flussi migratori di maggio, magicamente in forte calo, come sottolineato da Meloni stessa. Ma non è proprio questa la pistola fumante che dovrebbe destare sospetti? È evidente che Saïed ha compreso la vulnerabilità del governo italiano sul tema migratorio, manipolando i flussi per assicurarsi i servizi di Roma per riacquistare voce internazionale. C'è chi dirà che bisogna agire nel nome del pragmatismo: Saïed sarà pure un brutto ceffo, ma con lui tocca fare i conti. È vero che il presidente tunisino è l'unico cavallo in corsa (d'altronde, in una dittatura non ce ne sono altri), ma questo non gli impedisce di essere un cavallo perdente. È nel nome del pragmatismo, ma quello sano e non impanicato, che Roma dovrebbe spendersi per un ingaggio dell'Ue non puntando su Saïed per racimolare le briciole (reversibili) sulla migrazione, bensì sulle riforme economiche e democratiche. Quelle senza le quali la Tunisia, Saïed o meno, sprofonderà nel baratro.
Nathalie Tocci, La Stampa (11/6/2023)
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