Il filologo Gianfranco Contini divideva la letteratura in due filoni: da una parte quello espressionista e plurilinguista e dall’altra quello monolinguista. Capostipite del primo sarebbe Dante, tendente a mescolare lingue, stili e generi; capostipite del secondo sarebbe invece Petrarca, portato verso la selezione, la riduzione, il controllo, la sobrietà e l’esclusione di ogni eccesso. Al primo versante appartiene Carlo Emilio Gadda, al punto che Contini ha individuato a ritroso una «funzione Gadda» espressionista. Se si volesse, un po’ per gioco, trasferire questa bipartizione un po’ artificiosa al mondo del calcio, si potrebbe assimilare Diego Armando Maradona al filone dantesco-gaddiano, mentre al secondo appartengono campioni «semplici», essenziali e geometrici come Pelé, Cruijff e Platini. In effetti l’aggettivo «barocco» per Maradona, in questi giorni, è stato utilizzato spesso e volentieri. E giustamente. A pensarci bene, non c’è descrizione del temperamento atletico (e psicologico) di Maradona più calzante di quella con cui Vitaliano Brancati definiva il barocco: un movimento che uscendo da un ghirigoro per entrare in un altro, corre su una linea dritta, quasi mettendo insieme l’abilità del dribbling con la velocità della saetta. E non è escluso che la particolare affinità elettiva tra Napoli e Diego avesse qualcosa di genetico nella comune mentalità barocca, opposta all’ottica illuminista di un Platini che era invece più adatta alla torinesità. Del resto, Gianni Brera, macheronico lui stesso, elogiava lo «sgorbio divino» Maradona citando il re della poesia barocca, il napoletano Giovan Battista Marino: «È del poeta il fin la meraviglia». E per concludere citando Gadda, che da giovane aveva lavorato (guarda caso) proprio a Buenos Aires, mai dimenticare che «barocco è il mondo», con i suoi gomitoli, deliri, intrichi. Gli stessi che hanno messo alla prova Maradona nella vita; gli stessi con cui Maradona faceva impazzire gli avversari.
Paolo Di Stefano, Corriere della Sera (27/11/2020)
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