Canzone del giorno: Glass of Water (2008) - Coldplay
Clicca e ascolta: Glass....
Clicca e ascolta: Glass....
La sorte dei
centesimi, di quelle minuscole monetine dal colore improbabile, è stata segnata
sin dall’inizio dell’introduzione dell’euro.
Il concetto del
valore del centesimo, soprattutto nella mente di noi italiani, ha preso
un’altra strada sin da quando, tra le mani o le tasche, s’intrufolavano gli
spiccioli da 1, da 2 e da 5.
Il centesimo c’è, ma
non esiste!
Gli ultimi dati Istat
sui consumi rilevano come gli acquisti di beni alimentari siano scesi ancor di
più anche nel mese di dicembre.
Qualche giorno fa mia
moglie, all’interno di un mini-market, non trovando fra gli scaffali una
singola bottiglia di acqua frizzante, ha chiesto al proprietario se poteva
prenderne una estraendola dalla classica confezione sigillata da sei.
La risposta del
commerciante racchiude l’essenza dell’attuale periodo: «Certamente, Signora! Di questi tempi sono disponibile a vendere
l’acqua anche in singoli bicchieri».
“Centellinare i
centesimi”, come scrive Mario Deaglio su La Stampa: “Il
modello tradizionale del consumismo sembra tramontato: il consumatore
«bamboccione», stregato dalla pubblicità, ha perso il suo sorriso un po’
assente, si è fatto, duro, attento, determinato a vender cara la propria pelle,
ossia a centellinare i centesimi, invece di spendere allegramente gli euro.
Forse si sta realizzando ora in Italia un mutamento di comportamenti
consumistici parallelo a quello che si è verificato negli Stati Uniti a partire
da 4-5 anni fa”.
Una diversità virtuosa di MARIO DEAGLIO | |
E’ mai possibile che a dicembre, ossia sotto le feste, nella stagione dei regali e dei cenoni, gli italiani abbiano speso, per gli acquisti nei negozi e nei supermercati meno di quel che avevano speso a novembre? Senza esitazione, l’Istat risponde di sì: rispetto al dicembre del 2010 è una vera e propria Caporetto, con il 3,7 per cento in meno per gli acquisti di beni non alimentari e l’1,7 per cento in meno per gli acquisti alimentari. La curva delle vendite del commercio al dettaglio degli ultimi due anni fa male agli occhi, con un lieve scivolamento dal dicembre 2009 al febbraio 2011 divenuto sempre più rapido a partire dal marzo dell’anno passato. I consumi hanno reagito molto peggio nel 2011 che nel 2008-09, quando la crisi finanziaria aveva cominciato a colpire duramente l’economia reale. In giugno siamo scesi sotto il livello di consumi del 2005 (quando i residenti in Italia erano due milioni e mezzo in meno); ora siamo scesi al livello del luglio 2004. E non si tratta certo di una «decrescita felice» auspicata da chi è contrario al consumismo ma di una contrazione che avviene in un clima di durezza e di crescente incertezza. Un’indagine del Cermes, il Centro di Ricerca su Marketing e Servizi dell’Università Bocconi, mostra chiaramente che questa caduta dei consumi si sta accompagnando a un forte mutamento qualitativo, che invece non si era verificato, per lo meno con questa ampiezza, nella contrazione dei consumi di tre anni fa. Il modello tradizionale del consumismo sembra tramontato: il consumatore «bamboccione», stregato dalla pubblicità, ha perso il suo sorriso un po’ assente, si è fatto, duro, attento, determinato a vender cara la propria pelle, ossia a centellinare i centesimi, invece di spendere allegramente gli euro. Forse si sta realizzando ora in Italia un mutamento di comportamenti consumistici parallelo a quello che si è verificato negli Stati Uniti a partire da 4-5 anni fa. Tale comportamento sembra articolarsi in due diverse strategie di consumo. La prima consiste nel trasferire all’interno delle pareti domestiche attività il cui prodotto veniva in precedenza acquistato all’esterno. Una buona colazione mattutina sostituisce sempre più frequentemente il «salto al bar» nella pausa caffè; si può prendere il caffè a casa, magari con le nuove macchinette a cialde, con le quali una tazzina costa più cara di quella della caffettiera normale ma assai meno di quella dei bar; e sono sempre più frequenti i casi di coloro che hanno ricominciato a fare il pane in casa invece di comprarlo. La seconda strategia consiste nell’adeguare la spesa alle (ridotte) risorse finanziarie che si intendono dedicare ai consumi, non solo per necessità ma qualche volta anche per scelta. Gli ipermercati diventano luoghi di tentazione invece che luoghi di soddisfazione dei bisogni; meglio quindi acquisti piccoli e frequenti, adatti ai soldi effettivamente in tasca, che la «gita» ai templi del consumo dalla quale si esce con il portabagagli strapieno di prodotti, una parte dei quali senza saper veramente perché. Le offerte «prendi tre, paghi due» non sono allettanti quando si ha necessità di un solo prodotto; le confezioni piccole sono preferite a quelle grandi anche se durano meno perché alleggeriscono meno il portafoglio. E naturalmente, bando agli sprechi: gli italiani stanno (ri)imparando a non buttar via nulla. Gli italiani non sembrano resistere con tagli «orizzontali» che toccano ogni tipo di prodotti, ma reagiscono, modellando i consumi sul reddito. Sembra così di intravedere un comportamento «attivo», quasi un riappropriarsi di facoltà di scelta, di decisioni che per vari decenni gli italiani, come i cittadini degli altri Paesi ricchi, avevano delegato di fatto ai pubblicitari. Il termine «frugalità», reintrodotto nel vocabolario americano quattro anni fa per indicare un atteggiamento responsabile rispetto ai beni, ha forse trovato la sua strada anche in Italia. Tale atteggiamento sembra far capolino anche nelle scelte lavorative, con casi recenti, da seguire con attenzione, di ritorno degli italiani verso occupazioni e mestieri fino a pochissimo tempo fa «snobbati» e lasciati agli immigrati. L’Italia che uscirà dalla crisi - che ha probabilmente toccato il picco a gennaio e febbraio, anche per motivi meteorologici, con il freddo che limitava l’offerta degli alimentari freschi e teneva i consumatori lontani dai luoghi dell’acquisto - sarà probabilmente diversa, più responsabile, più reattiva dell’Italia che vi è entrata, quasi senza accorgersene e dopo averne negato a lungo l’esistenza. Potrà sembrare una piccola cosa, ma è proprio su questa diversità di atteggiamento che occorre costruire, se questo Paese vuole avere un futuro. mario.deaglio@unito.it La Stampa 25 febbraio 2012 |