La realtà è il cinque per cento della vita. L'uomo deve sognare per salvarsi.
Walter Bonatti (1930 – 2011), alpinista, esploratore, giornalista e scrittore italiano
"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".
Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)
Walter Bonatti (1930 – 2011), alpinista, esploratore, giornalista e scrittore italiano
Avarizzia
Ho conosciuto un vecchio
ricco, ma avaro: avaro a un punto tale
che guarda li quatrini ne lo specchio
pe’ vede raddoppiato er capitale.
Allora dice: – Quelli li do via
perché ce faccio la beneficenza;
ma questi me li tengo pe’ prudenza… –
E li ripone ne la scrivania.
Trilussa (1871 - 1950), da Li sette peccati (La gente - 1927)
Confesso una perversione: vorrei essere tra quelli che inventano nuovi nomi ai condoni fiscali. Dove stanno? Non lo so. Forse in Commissione Bilancio, forse in una stanzetta climatizzata dell’agenzia delle Entrate, forse in un privé al ministero del Tesoro, o delle Finanze. Me li immagino come un trust di cervelli che si nutre di letteratura e vocabolari, visionari elaboratori di neologismi, creatori di formule sublimi, gente che stappa lo champagne (esentasse) quando in Gazzetta Ufficiale compare una loro invenzione. L’ultima trovata – probabilmente ci hanno pensato per mesi – si chiama “Ravvedimento operoso”, e chissà quanti nomi sono stati scartati nelle frenetiche riunioni creative prima di arrivarci. Qualcuno avrà certamente proposto “Pentimento con dito medio”, un po’ inadatto ai discorsi ufficiali, oppure “Incularella fiscale”, efficace ma un po’ volgare. Certamente ci saranno state infinite discussioni e persino liti attorno a quel tavolo, che mi immagino formato da fiscalisti e letterati. Confesso che mi sarebbe piaciuto un concetto semplice come “Furto di riparazione”, oppure una cosa più popolare e populista come “Suca”; anche se devo dire che sarei rimasto affascinato da ricordi infantili, tipo “Arimortis”, come quando, giocando da bambini, si chiedeva una pausa di salvataggio, e in questo caso la si chiederebbe al fisco. Ma insomma, alla fine ha vinto “Ravvedimento operoso”, che vuol dire che tu ti ravvedi e sganci due lire, e così ti metti al riparo da eventuali controlli e paghi una minuscolissima parte (senza sanzioni e senza interessi) di quello che dovevi pagare e non hai pagato. Tipo entri in un negozio, rubi un salame, tre anni dopo ti ravvedi operosamente, paghi il cinque per cento del salame che hai rubato e tutto finisce lì e tanti saluti al fisco. […] I promotori (il governo) dicono che da tutti questi ravveduti con il capo cosparso di cenere e sconti si tireranno su un paio di miliardi. Intanto però si mettono a bilancio dei soldi a copertura, perché non sarebbe la prima volta che i ravveduti firmano, si ravvedono, rateizzano, e poi non pagano le rate (in questo caso il nome esatto sarebbe “Ravvedimento un cazzo”) Ma tanto chissenefrega, perché i numeri sono virtuali e se la cosa avrà funzionato lo sapremo tra quattro o cinque anni, e se non funzionerà (cosa più che probabile) nessuno andrà a cercare i responsabili dell’ideona di questo nuovo condono fiscale. Ed è l’unica cosa certa di tutta la faccenda: che a nessuno di quelli che si inventano nomi bizzarri e affascinanti per condonare gli evasori verrà chiesto, un domani, di ravvedersi.
Alessandro Robecchi, Il Fatto quotidiano (2/10/2024)
Vita Sackville-West (1892 -1962), Il libro del giardino (Garden Book, 1951-1958)
Quello che preme su di te, che ha sempre premuto su di te: l’esterno, nel senso dell’aria - o più esattamente, il tuo corpo nell’aria attorno a te. Le piante dei piedi ancorate al suolo, ma tutto il resto di te è esposto all’aria, ed è lì che la storia comincia, nel tuo corpo, come nel corpo finirà tutto. Per ora stai pensando al vento. Più tardi, se il tempo lo permetterà, penserai al caldo e al freddo, alle infinite varietà di pioggia, alle nebbie che hai attraversato inciampando come un uomo senza occhi, al folle tatuaggio sventagliato dalla grandine che ticchettava sui coppi del tetto della casa nel Var. […] Quando sei perso, guardati intorno. Dubita di tutto e cancellalo. Hai una sola certezza: tu sei lì. Lo sei perché c’è il tuo corpo e tu sei il tuo corpo. Il tuo corpo è spazio che hai attraversato, ma anche il tempo che ti reso ciò che sei. Il tempo te lo porti scritto addosso: le cicatrici sono parole e le parole sono cicatrici.
Paul Auster, Diario d’inverno (Ed.Eiunaudi – 2012)
Se lo scopo della guerra fosse ammazzare i capi nemici Israele avrebbe stravinto. L’ultimo scalpo eccellente esibito da Netanyahu appartiene all’architetto del 7 ottobre, Yahya Sinwar. Da quel giorno Israele era in caccia del feroce capo militare di Hamas, uno dei 1027 prigionieri palestinesi liberati dallo Stato ebraico nel 2011 in cambio del soldato Gilad Shalit. Nei negoziati sugli ostaggi israeliani detenuti a Gaza dai miliziani islamisti gli emissari di Netanyahu avevano fatto capire ai mediatori qatarini, grandi finanziatori di Hamas con il benestare di Gerusalemme, che se avessero messo sul piatto la testa di Sinwar la trattativa si sarebbe svolta su un altro piano. E forse la guerra avrebbe preso una piega diversa. In teoria, Netanyahu avrebbe potuto dichiarare vittoria ed evitare di esporre il suo paese sui sette fronti attuali, in una partita apparentemente infinita nella quale lo Stato ebraico rischia la vita. Ma non era e non è questo l’obiettivo del premier, ammesso ne abbia uno diverso dal restare al suo posto. Sicché oggi la liquidazione di Sinwar ha un impatto relativo sul conflitto. È certamente un successo di immagine per Israele, da spendere per rafforzare il morale dell’opinione pubblica, piuttosto scosso. Ma i suoi effetti operativi restano da valutare. Sia sul fronte di Gaza sia su quelli davvero decisivi, dal Libano all’Iran. Di sicuro la fine di Sinwar non è la fine di Hamas. Nella Striscia Israele prosegue il massacro che non discrimina fra terroristi e popolazione, con l’obiettivo di desertificare quel territorio martoriato, espellerne quanti più palestinesi possibile e riportarlo sotto il proprio controllo. Operazione che non promette di risolversi in qualche settimana. Ma non è a Gaza che si misura la traiettoria del conflitto che sta sconvolgendo il Medio Oriente. Gerusalemme ha rovesciato tutti i suoi princìpi strategici. A cominciare dalla necessità di non logorarsi in guerre prolungate causa evidenti limiti demografici e territoriali. Imperativo tanto più cogente ora che la società israeliana esibisce la profondità delle faglie che ne dividono le varie tribù, dai sionisti laici ai religiosi, dagli arabi agli ultraortodossi. La sfida con l’Iran e i suoi clienti più (Hizbullah) o meno (Hamas, huti) stretti serve soprattutto a evitare la guerra civile. Anche solo a rinviarla. Si è così generata una nevrosi bellica. Israele non può chiudere la partita perché deve vincerla per evitare che le riesploda in casa. Ma non può vincerla perché ha avviato contemporaneamente troppe sfide. Altre potrebbe inventarne. Una guerra fine a sé stessa finisce solo per esaurimento di chi la persegue o con una guerra regionale che può coinvolgere anche l’America. La tattica del “molti nemici molto onore” non ha mai portato fortuna a nessuno. Sta invece costruendo intorno allo Stato ebraico un muro di ostilità quasi universale, ravvivando la fiamma mai spenta dell’antisemitismo, ma di tipo nuovo, particolarmente insidioso. Fiera del razzismo estendibile al di là degli ebrei. Sul piano strategico, per Israele la crisi più grave riguarda il rapporto con gli Stati Uniti. La sua sicurezza dipende dalla protezione americana. Militare e politica. Gli apparati di Washington, che governano il paese in sede presidenziale vacante, stanno perdendo la pazienza. Risultato: nelle Forze armate israeliane cominciano a scarseggiare munizioni e armamenti di punta. Ma anche combattenti: il serbatoio dei riservisti non è infinito né di qualità rassicurante. Un terzo della popolazione è escluso (arabi) o si autoesclude (ultraortodossi) dal reclutamento. Ciò non contribuisce ad alzare il morale di chi combatte anche per i compatrioti che non possono o non vogliono farlo. Mentre incrudisce i rapporti fra comunità domestiche e incrina il morale delle Forze armate, i cui vertici si dividono pubblicamente sul da farsi, anche criticando il governo. Nei prossimi giorni vedremo come Netanyahu vorrà spendere il successo ottenuto eliminando Sinwar. Il mondo attende di sapere dove e come Israele colpirà l’Iran. E soprattutto come il regime dei pasdaran reagirà. Nessuno dei due rivali può eliminare l’altro. Ma entrambi possono autoeliminarsi se perderanno il controllo di sé. Per non perdere la faccia rischiano di perdere tutto.
Lucio Caracciolo, Repubblica (18/10/2024)
Un tocco, una scossa elettrica, gli occhi si incrociano
Hai sentito anche tu la stessa cosa?
Il mondo si ferma, solo noi, qui sotto i
puntini
Nell’oscurità del blu, all’improvviso
È così che ci si sente ad essere
innamorati?
È magico, è magico
È così che ci si sente ad essere
innamorati?
È magico, è magico
Ed Sheeran, Magical (2023)
Il primato dell‟imbecillità viene battuto tutti i giorni.
Pino Caruso
Non è stato un errore. Non è stato un incidente né una fatalità. L’attacco attuato da Israele alle postazioni della missione Unifil, la forza di peacekeeping svolta sotto mandato Onu e che vede protagoniste Italia e Francia, è stato un atto voluto e deliberato, che ha provocato il ferimento di due soldati indonesiani. Un’aggressione che avrebbe potuto portare a conseguenze molto gravi anche per i nostri soldati, i quali dal 2006 garantiscono che Israele e Hezbollah non vengano nuovamente a contatto, dopo la tragica guerra dei trentatré giorni di quell’anno. Un’azione che sarebbe ingannevole limitarsi a catalogarla come una “follia” delle forze armate israeliane. È molto di più: attaccare una missione internazionale Onu è un crimine di guerra. E purtroppo, è doloroso doverlo ammettere, non sembra essere neppure il primo commesso da Israele in questo anno di vendetta dopo l’orribile strage del 7 ottobre. Sembra quasi che – sull’onda dei successi militari – il governo e i vertici militari dello Stato ebraico abbiano perso ogni freno inibitore, travolti da una volontà di continuare il conflitto e di allargarlo alla regione: ieri la distruzione di Gaza e gli assassinii mirati all’estero, poi i bombardamenti indiscriminati in Libano e le sfide continue alla Repubblica islamica, quasi ad invitarla a reagire – come ha in effetti fatto –, ora l’entrata con le truppe di terra nel fragile “paese dei cedri” e infine l’attacco a Unifil. In molti pensano che si sia trattato di una sorta di avvertimento, che a noi italiani suona molto in “stile mafioso”, per far sloggiare dalla frontiera le nostre truppe e avere mano libera nell’invasione del Libano del Sud. Una richiesta fatta già da qualche giorno in modo rude – “spostatevi più a nord” – e alla quale il comando Unifil ha risposto negativamente. Del resto, il contingente Onu non prende ordini da un governo che è parte in causa nel conflitto, anche se si tratta di un Paese amico come Israele. Ma quale che fosse l’intento di questo attacco, è chiaro che Netanyahu ha superato ogni limite. Ora basta: non vi sono alternative a fermare subito le armi. E non vi devono essere ambiguità e discorsi levantini anche fra i nostri alleati in Occidente: è tempo di massimizzare la pressione su Tel Aviv per forzarli a fermare questo conflitto sanguinosissimo. Washington ha gli strumenti, se solo li volesse usare, per fermare la deriva bellicista di Israele: ossia bloccare – come già richiesto dal presidente francese Macron – l’invio di armi al Paese. Non si tratta di togliere sostegno o di “abbandonare” lo Stato ebraico; piuttosto, è il tentativo estremo di evitare una spirale insensata di morti e violenze, per riprendere i negoziati per una tregua. Che finora Netanyahu ha sempre boicottato, anche a costo di lasciare gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas al loro terribile destino. Cosa faranno l’Italia e le altre nazioni impegnate in Unifil è difficile da prevedere. Per ora si resta, ha detto il governo italiano, anche perché smobilitare una missione ventennale nel mezzo di un conflitto è tutto tranne che semplice o privo di pericoli. Ma restare significa anche dare un segnale che l’Onu, per quanto indebolito, non cede alla protervia che sembra aver intossicato il governo israeliano. E difendere il ruolo delle Nazioni Unite è fondamentale, soprattutto ora che il suo Segretario generale, António Guterres, viene considerata persona non grata e che Israele minaccia di mettere al bando l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa). Una minaccia insensata, dato che su di essa si basa la distribuzione degli aiuti – quei pochi che si riesce a far arrivare – alla stremata popolazione civile di Gaza. È tempo di pace in Terra Santa. È tempo di riporre le armi e siglare una tregua che possa portare a uno stop definitivo del conflitto. Ma è anche tempo di assumersi le responsabilità a Washington e in Europa, per parlare a Israele come solo gli amici possono fare. Per dire che tutti i limiti sono stati infranti e che è ora di fermarsi. Subito.
Riccardo Redaelli, Avvenire (10/10/2024)
Kashigi Omi: "A dire il vero, io non so più per cosa sto combattendo…"
Kiku: “Se
guardi e non vedi nulla…devi solo guardare più intensamente”.
da “Shogun”
(2024), serie televisiva di FX vincitrice di 18 Emmy Awards
Capitano a volte incontri con persone a noi assolutamente estranee, per le quali proviamo interesse fin dal primo sguardo, all'improvviso, in maniera inaspettata, prima che una sola parola venga pronunciata.
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, 1866
Di recente ho parlato con un antropologo di nome Barry Hewlett, che studia l’educazione dei figli nelle società di cacciatori-raccoglitori dell’Africa centrale. Mi ha spiegato che in queste società i bambini trascorrono molto tempo con i genitori ma raramente sono l’oggetto principale dell’attenzione dei genitori. A volte annoiati, a volte impegnati, questi bambini passano gran parte del loro tempo a osservare gli adulti che fanno cose da adulti. I genitori delle società industrializzate contemporanee hanno spesso un approccio opposto. Nel prezioso tempo in cui non lavoriamo, mettiamo i nostri figli al centro della nostra attenzione. Li accompagniamo agli allenamenti sportivi e alle lezioni di musica, dove sono monitorati dagli adulti. Diamo più valore al “tempo di qualità” che alla quantità di tempo. Ci sentiamo in colpa quando dobbiamo trascinare i nostri figli con noi per occuparci di noiose faccende da adulti. Questo stile genitoriale intensivo richiede molti più sforzi di quello descritto dal professor Hewlett. Mi sono ritrovata a pensare a quei cacciatori- raccoglitori il mese scorso, quando ho letto il parere del Surgeon General Vivek Murthy, che avvertiva che molti genitori sono stressati fino al punto di rottura. Le ragioni di questo preoccupante stato di cose sono molteplici. Una è che non ignoriamo abbastanza i nostri figli. Per la maggior parte della storia dell’umanità, le persone avevano molti figli e i bambini frequentavano gruppi sociali intergenerazionali in cui non erano sottoposti a una forte sorveglianza. Naturalmente, il fatto che uno stile genitoriale sia antico non lo rende buono. Ma gli esseri umani hanno trascorso circa il 90% del nostro tempo collettivo sulla Terra come cacciatori-raccoglitori, e il nostro cervello e il nostro corpo si sono evoluti e adattati a questo stile di vita. Le culture dei cacciatori-raccoglitori ci dicono qualcosa di importante su come i bambini sono predisposti all’apprendimento. Uno stile genitoriale che prende spunto da quei cacciatori-raccoglitori insisterebbe sul fatto che una delle cose migliori che i genitori possono fare — per noi stessi e per i nostri figli — è andare avanti con la nostra vita e portare con noi i nostri figli. Si potrebbe chiamare “sottogenitorialità consapevole”. I bambini imparano non solo dalle istruzioni dirette, ma anche osservando ciò che fanno le altre persone intorno a loro, che si tratti di raccogliere bacche, cambiare una gomma o rilassarsi con gli amici dopo una lunga giornata di lavoro. Fin da piccoli, questo tipo di osservazione inizia a preparare i bambini all’età adulta. E, cosa ancora più importante, seguire gli adulti fa sì che i bambini imparino a tollerare la noia, il che favorisce la pazienza, l’intraprendenza e la creatività. Un modo eccellente per annoiare i bambini è portarli a casa di un parente anziano e costringerli ad ascoltare una lunga conversazione tra adulti sui membri della famiglia che non conoscono. Anche le gite quotidiane all’ufficio postale o in banca possono creare preziose occasioni di noia. Lasciare gli schermi dei bambini a casa durante queste gite può aumentare l’utile noia. Spesso i genitori sentono il bisogno di coinvolgere i figli in attività “divertenti” per allontanarli dagli schermi. Ma insegnando ai bambini a desiderare una stimolazione esterna e un intrattenimento costante, la genitorialità intensiva può in realtà peggiorare la dipendenza dallo schermo. Negli anni ‘90, quando ero un bambino di una piccola città dell’Ohio, trascorrevo ore e ore con i miei fratelli a giocare nel ruscello dietro casa, con tutto il tempo necessario per divertirmi e annoiarmi. Quando questo tipo di esperienza “libera” non è possibile, tuttavia, la soluzione migliore è una sotto-genitorialità. I genitori hanno vita più facile in Paesi come la Germania e la Spagna, dove si possono trovare birrerie e bar di tapas situati accanto a parchi giochi, o in Danimarca, dove i genitori parcheggiano i loro bambini nei passeggini fuori dai caffè mentre socializzano. L’underparenting richiede un cambiamento strutturale. Occorre anche che la società riduca la propria intolleranza nei confronti dei bambini negli spazi pubblici e che crei ambienti sicuri in cui i bambini possano scorrazzare. In una società che tratta i bambini come un bene pubblico, potremmo tenere d’occhio collettivamente tutti i nostri figli.
Darby Saxbe, docente di Psicologia presso la University of Southern California (New York Times – Repubblica, 16/9/2024)
Oscar Wilde (1854 -1900)
Carlo Cadei, da google.it |
1. Negramaro, Solo3min – (Mentre tutto scorre – 2005) – Cinque minutini
2.
Alan
Parson Project, The Ace of Swords – (The
Turn of a Friendly Card – 1980) – Razzismo
e antirazzismo
3.
Mavis
Staples, Sown Good Seeds – (One
True Vine – 2013) – Seminare
dubbi
4. Raf, Inevitabile follia – (Svegliarsi un anno fa – 1988) – Inevitabile conclusione
5.
Peter
Allen, Marriage – (Peter
Allen – 1971) – Matrimonio
felice
6.
Al
Jarreau, Distracted – (This
Time – 1980) – Prediche
inutile
7.
Coldplay, A Heat Full of Dreams – (A
Heat Full of Dreams – 2015) – A
Heat Full of Dreams
8.
Eilen
Jewell, Crooked River – (Get
Behind The Wheel – 2003) – Analfabetismo
religioso
9.
Albert
Hammond, Experience – (Your
World And My World – 1981) – La
durata dell’esperienza
10.
Etta
James, All The Way – (All
The Way – 2006) – La
“puntazza” di Totò
11.
Joe
Cocker, You Are So Beautiful – (I
Can Stand a Little Rain – 1974) – You
Are So Beautiful
12.
Fabrizio
De Andrè, Le passanti – (Canzoni
– 1974) – Incollati
13.
Ligabue, Una vita da mediano – (Miss
Mondo – 1999) – Il Calcio
14.
Colin
James, Big Bad World – (Fuse
– 2000) – Il
lavoro sporco