E’ lecito, in queste ore, perdere l'equilibrio. E’ lecito essere in pena per Gaza, il peggior luogo possibile in cui trovarsi sulla terra, pur senza smettere di essere in pena per gli ostaggi israeliani, per le vittime del 7 ottobre e le loro famiglie. Ed è lecito anche, dopo gli attentati di Arras e di Bruxelles, sottrarre al Medio Oriente un frammento di quella pena per rivolgerla di nuovo verso noi stessi, intimoriti dal ritorno di una stagione che ci eravamo affrettati a stabilire conclusa. Iniziava così una versione precedente di questo articolo. Era già in pagina martedì sera, pronta per uscire la mattina seguente, quando è arrivata la notizia del bombardamento dell'ospedale di Al-Ahli. Ogni riga successiva, che un attimo prima mi sembrava ragionevole, è stata sorpassata dalla realtà. E lo scenario che consideravo come eventuale — una strage massiccia a Gaza dovuta a un'offensiva via terra — si è inverato prima del previsto, solo in forma diversa. In guerra sentimenti e opinioni invecchiano in fretta, vengono continuamente sopraffatti da altri più recenti, ma in questa guerra accade con una frenesia particolare, per quanto è densa, circoscritta e al contempo globale, per quanto investe strati di convinzione depositati in precedenza in ognuno di noi. Si potrebbe pensare che una simile velocità ci renda automaticamente più scattanti, ricettivi, mutevoli e anche guardinghi, invece ha quasi sempre l'effetto opposto, quello di farci irrigidire sulle nostre posizioni a priori, delle quali non troviamo che conferme su conferme. […] Per noi, che osservando tutto ciò non possiamo che occuparci della nostra tenuta psichica, la domanda è forse questa: siamo in grado di tenere insieme tutto? Possiamo, almeno noi, piangere le vittime del rave e dei kibbutz e insieme quelle dell'ospedale, senza che si elidano reciprocamente? Possiamo essere critici, anche molto critici, riguardo alla politica estera di Israele, furiosi per l'oppressione di Gaza, e insieme riconoscergli il diritto a una risposta militare, alla liberazione dei propri cittadini e al tentativo di debellare un'organizzazione terroristica che ha come scopo la sua cancellazione? Sono contraddizioni strazianti, emotivamente ancor prima che intellettualmente. Strazianti ma non così ambigue, all'interno delle quali cerchiamo uno spazio dove restare umani. Nelle ultime ore sono in tanti a praticare questo esercizio faticosissimo: sui giornali, nelle conversazioni private, silenziosamente in sé stessi. Che cosa ci rende tutto ciò? Dei virtuosi o degli abietti? Dei moderati o dei debosciati? Non lo so davvero, meno che mai adesso. Ma so che lo sforzo di esistere su più livelli, di diffidare delle questioni di principio per occuparsi dei singoli elementi, di ciò che è vero e ciò che non lo è, di ciò che è terrorismo e ciò che non lo è, di ciò che è un crimine di guerra e ciò che non lo è, di ciò che è proporzionato e ciò che non lo è, del rispetto delle regole proprio quando i contesti si fanno più sregolati, è qualcosa di molto simile a una definizione del vivere in una democrazia liberale. […] Non esiste al mondo un magnete più potente di Israele-Palestina. L'attualità di cui stiamo discutendo assume forme diverse a seconda di dove riavvolgiamo il nastro. A coloro che lo riavvolgono continuamente al 1948, per esempio, alla fondazione di Israele e alla sua presunta illegittimità, non c'è granché da dire. Osserviamo gli stessi fenomeni ma in sistemi di riferimento non inerziali, usiamo strumenti calibrati diversamente quindi le nostre misure saranno sempre fra di la ro sballate. Per questo, il 7 ottobre, la mia reazione istintiva è stata di proporre, provocatoriamente, di far partire un nuovo nastro. Non di cancellare i precedenti, ma di inaugurarne anche uno nuovo, riconoscendo tutti, senza infingimenti, che quello era un attacco terroristico e in quanto tale eccedente rispetto al contesto. Non si trattava di una proposta a beneficio esclusivo di una parte: rimuovere l'opacità su quel giorno permetterebbe di sottrarre anche la popolazione palestinese a un'opacità contraria, che grava su di loro insieme a tutto il resto. E di valutare la risposta militare israeliana con maggiore lucidità, distinguendone ogni iniziativa specifica come legittima oppure no, secondo i nostri standard. La nostra fede democratica non è fatta solo di principi ma anche di questa vocazione al particolare, al ricondurre ogni evento alla sua verità fattuale, per poi valutarlo in base alle regole. La specificità come antidoto all'ideologia. È proprio ciò che un estremista non fa. Perché un estremista non si permette mai di perdere l'equilibrio, non si lascia scompaginare i pensieri dalla realtà che accade, non si confonde, non riscrive e non ritratta. Riascolta solo, all'infinito, lo stesso nastro.
Paolo Giordano, Corriere della Sera (19/10/2023)
Canzone del giorno: Tight Rope (2016) - Jack Savoretti
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