La questione centrale nel percorso verso la Legge di bilancio 2024 è dunque il deficit, cioè la differenza (negativa) tra le entrate e le uscite dello Stato. La difficoltà del governo nel ricavare qualche decimo di centesimo di Prodotto interno lordo da spendere per le politiche che ha in mente ci ricorda ogni anno di più quello che è diventata la gestione della contabilità pubblica italiana: un complicato esercizio fatto di piccoli spostamenti da una voce all’altra del bilancio, per trovare le risorse che avanzano una volta pagati gli interessi sul debito. Siamo usciti nel 2022 da un decennio di tassi a zero che ci aveva illusi di poter tornare a non sapere che cos’è lo spread e di guardare con sufficienza i rendimenti dei Btp. Ci eravamo abituati a prestiti senza interessi, banche centrali che compravano i titoli di Stato, risorse a fondo perduto da Bruxelles. Sembrava dovesse durare a lungo. Alcuni economisti ipotizzavano che l’inflazione fiacchissima fosse un secular trend, un fenomeno economico permanente della nostra epoca. Esageravano, forse sbagliavano. Con dieci rialzi dei tassi in due anni la Banca centrale europea ci ha ricordato brutalmente che il denaro in prestito, normalmente, ha un costo. È un brutto risveglio per la Repubblica Italiana, che con i 2.859 miliardi di euro raggiunti dal debito pubblico a luglio è uno dei maggiori debitori del pianeta. In due anni il tasso di interesse che gli investitori chiedono al ministero dell’Economia per le obbligazioni con scadenza di dieci anni è balzato dallo 0,75% all’attuale 4,78%.Il costo medio all’emissione dei titoli di Stato è volato dallo 0,10% del 2021 al 3,55% del 2023. Significa che per ogni milione di euro ottenuto in prestito da gennaio ad oggi dovremo pagare 35mila euro di interessi all’anno fino alla scadenza. L’anno scorso l’Italia ha speso per gli interessi sul debito pubblico 83 miliardi di euro, la Francia 50, la Germania 26. Le previsioni dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano dicono che il conto potrebbe salire a 100 miliardi nel 2024. Tra le missioni del Bilancio dello Stato la spesa per interessi già supera, tra le altre, quelle per istruzione scolastica (52 miliardi), politiche sociali e famiglia (61 miliardi), competitività delle imprese (35 miliardi). Se non ci sono mai i soldi per tutto quello che i governi vogliono fare è perché i debiti che hanno fatto i governi degli anni e dei decenni passati (l’esplosione del passivo dello Stato risale ai famigerati anni ‘80) ci costano un’enormità. È solo gioco politico fare terrorismo sulla riforma del Patto di Stabilità o tornare a prendersela con i “falchi” del Nord Europa. L’Italia deve sforzarsi di ridurre il peso del debito pubblico non per le pressioni esterne, ma per avere denaro da destinare a obiettivi più utili. Rimuginare sul passato è inutile, ignorarlo però è folle. Ci ha provato Mario Draghi a ricordare un concetto semplicissimo: «Ciò che rende il debito buono o cattivo è l’uso che si fa delle risorse impiegate». Eppure, scelte anche recentissime ci dicono che l’Italia non ha imparato la lezione: si indebita con straordinaria leggerezza e scarsi risultati, senza obiettivi di lungo termine. Così grazie al Superbonus al 110% abbiamo avuto la nostra fiammata di Pil e siamo pieni di palazzine con il cappotto termico, ma decine di migliaia di giovani famiglie non possono permettersi case dignitose e abbiamo prospettive demografiche da rischio di estinzione. Questione di priorità. Ora si punta a fare deficit per tagliare le tasse, fingendo di non vedere che, quando è finanziata a debito, la riduzione della pressione fiscale rischia di essere non un taglio, ma un rinvio. Lo sconto in busta paga magari arriva subito, ma se non funziona, se le misure per cui ci indebitiamo non portano una crescita reale e duratura, faremo solo salire il conto per gli italiani che verranno. Tra i titoli di Stato in circolazione ce n’è uno affascinante, perché ha l’orizzonte più lungo di tutti: un Btp emesso nel 2021 che scade il primo marzo del 2072. Ogni volta che ci prepariamo a discutere della prossima Legge di Bilancio, dovremmo pensare che la stiamo facendo anche per quelli che dovranno pagare quel Buono poliennale del Tesoro.
Pietro Saccò, Avvenire (28/9/2023)