Quando andavo alle elementari passavo accanto, a Porta Nuova a Milano, agli ultimi resti di case bombardate. Qui e là ancora s'intravedeva un lavello appeso al muro, o il segno, su una parete, lasciato da un quadro. Ogni mattina alzavo gli occhi a quelle macerie, incredula: nata in tempo di pace, stentavo a capacitarmi che davvero Milano fosse stata bombardata. Mi pareva una leggenda non credibile, e spesso chiedevo a mia madre di quegli anni, dei rifugi, delle sirene. Ascoltavo e me ne restavo zitta, sbalordita. Accanto ai portoni delle case d'epoca si leggeva ancora "U.S", uscita di sicurezza. Ma erano ormai gli anni 60, pacifici e prosperi a Milano, e tutto, attorno a noi, sembrava dirci che la guerra era finita per sempre. Che volontà di pace e nuove alleanze europee e l'amicizia degli Usa ci avrebbero tutelati per sempre. Iniziava, sì, la guerra fredda, ma noi bambini non lo sapevamo. Eravamo certi che la pace, nelle nostre città, fosse l'unica vita possibile. È per questo che da mercoledì ho una fitta al petto, come di qualcosa di incrinato. L'Ucraina, Stato sovrano, invaso. Putin che promette reazioni «senza precedenti nella storia» a chi si intrometta. Comunque vada a Kiev, se questa è la logica, a chi potrebbe toccare poi? Sì, da mercoledì ho questo dolore, quasi una ferita nascosta. Come se la mia vita, la nostra, non fosse più proprio quella di prima.
Marina Corradi, Avvenire (27/2/2022)
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