Cosa c’è da festeggiare il Primo Maggio se il lavoro, ogni anno che passa, vale meno? A mezzo secolo di distanza dalle lotte operaie sfociate nell’autunno caldo del 1969, che avviarono un decennio di conquiste sociali e cospicua redistribuzione della ricchezza a favore del lavoro dipendente, gli sfruttati di oggi vietano a se stessi perfino la nostalgia; non parliamo della fede in una prossima riscossa proletaria. Così, a furia di sentirsi dire che la lotta di classe è solo un nocivo ferrovecchio del passato, il 1° maggio 2019 in Italia rischia di trasformarsi in un anacronismo: la festa del lavoro che non c’è più. Ci sono la fatica e lo stress, ci sono gli orari spezzati, il ritorno del cottimo, le esternalizzazioni di rami d’azienda, i somministrati a termine, il caporalato digitale, il tariffario dei parasubordinati, il welfare aziendale differenziato, le false cooperative multiservizi con gare al massimo ribasso per l’assegnazione di appalti e subappalti. Ma è come se in frantumi fosse andata l’idea stessa di lavoro come tutt’uno, principio ordinatore della società. Nel quale lavoro ciascuno lavoratore possa rispecchiarsi e accomunarsi, considerandolo l’abito che indossa ogni mattina, l’esperienza fondamentale della propria vita fuori dall’ambito domestico. (...)
Nell’ordine, dunque, il 1 maggio 2019 si segnala per: espansione dell’area del lavoro povero, ovvero retribuito sotto una soglia ragionevole di sussistenza; diffusione parallela del part-time forzato, cioè orari ridotti con proporzionale riduzione dei compensi (un milione di sottoccupati dichiara che sarebbe disponibile a lavorare 19 ore di più a settimana); boom degli occupati sovraistruiti, 5 milioni e 569 mila dipendenti che hanno un titolo di studio superiore a quello che sarebbe necessario per svolgere le loro mansioni (il 25% del totale). (...) Proletario era colui che non possedeva altri beni oltre ai propri figli. E ne generava parecchi, di figli, perché calcolava che una parte se li sarebbe portati via la mortalità infantile e la guerra, mentre lui solo dalle loro braccia avrebbe potuto ottenere sostegno in vecchiaia. Oggi in Italia chi non possiede altro che il proprio lavoro, di figli non ne genera più, e quei pochi che ha generato spesso deve mantenerli anche da adulti. Il proletario senza prole viene così attanagliato dalla paura che lo Stato non sia più in grado di pagare le prestazioni sociali a sostegno della sua vecchiaia.
Stiamo diventando un Paese di proletari senza prole.
Gad Lerner, la Repubblica (30/4/2019)
Nell’ordine, dunque, il 1 maggio 2019 si segnala per: espansione dell’area del lavoro povero, ovvero retribuito sotto una soglia ragionevole di sussistenza; diffusione parallela del part-time forzato, cioè orari ridotti con proporzionale riduzione dei compensi (un milione di sottoccupati dichiara che sarebbe disponibile a lavorare 19 ore di più a settimana); boom degli occupati sovraistruiti, 5 milioni e 569 mila dipendenti che hanno un titolo di studio superiore a quello che sarebbe necessario per svolgere le loro mansioni (il 25% del totale). (...) Proletario era colui che non possedeva altri beni oltre ai propri figli. E ne generava parecchi, di figli, perché calcolava che una parte se li sarebbe portati via la mortalità infantile e la guerra, mentre lui solo dalle loro braccia avrebbe potuto ottenere sostegno in vecchiaia. Oggi in Italia chi non possiede altro che il proprio lavoro, di figli non ne genera più, e quei pochi che ha generato spesso deve mantenerli anche da adulti. Il proletario senza prole viene così attanagliato dalla paura che lo Stato non sia più in grado di pagare le prestazioni sociali a sostegno della sua vecchiaia.
Stiamo diventando un Paese di proletari senza prole.
Gad Lerner, la Repubblica (30/4/2019)
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