Nel tempo in cui l’intelligenza artificiale dimostra una capacità di analisi superiore a qualunque mente umana, il manager si scopre più informato ma meno creativo, più preciso ma meno visionario, più efficiente ma meno libero. È il paradosso cognitivo del manager algoritmico: delegare il pensiero analitico alla macchina libera tempo e risorse ma finisce per irrigidire la capacità di pensare out of the box. L’Ai consente di formulare previsioni di mercato più accurate, elaborare scenari complessi, scoprire pattern e relazioni nascoste e latenti all’interno di enormi volumi di dati, potenziando le capacità del management di decidere ed agire in tempi rapidi e su basi percepite come oggettive. Questa oggettività algoritmica rischia tuttavia di diventare un fattore invisibile di distorsione cognitiva, che porta a confondere la profondità con la precisione e l’intuizione con l’analisi. Gli algoritmi apprendono e fondano le loro elaborazioni su fenomeni già osservati, registrati, classificati e, in quanto tali, riferiti al passato. Il manager che si affida troppo all’intelligenza artificiale rischia di assumere decisioni prevedibili quanto i modelli che consulta e di perdere l’attitudine a rompere schemi, immaginare il nuovo, intravedere possibilità che i dati non possono ancora raccontare. In questo senso, l’Ai può diventare una gabbia cognitiva, che incentiva una forma di pensiero lineare e deduttivo e scoraggia la deviazione, l’ambiguità, la sorpresa. Mentre il potere predittivo dell’Ai cresce, si affievolisce il coraggio di disubbidire ai numeri ed immaginare scenari alternativi, inattesi, eppure possibili. Il pensiero divergente, motore insostituibile dell’innovazione strategica e del vantaggio competitivo, viene compresso dalla ricerca di efficienza e la decisione manageriale si appiattisce sull’ottimizzazione. Ma ottimizzare non è innovare e prevedere non è comprendere. L’efficienza non genera futuro se non è guidata da una tensione verso il possibile, verso ciò che ancora non esiste. Il rischio è che il manager finisca per disimparare a pensare strategicamente; che la delega eccessiva all’analisi algoritmica atrofizzi le capacità di intuizione, visione, lettura dei contesti nei loro paradossi e nella loro ambiguità; e che si sviluppi una nuova forma di “dipendenza cognitiva” dall’algoritmo, con l’incertezza non più considerata come opportunità per generare significato, ma come errore da correggere. Un ulteriore pericolo è l’impoverimento valoriale del ruolo del manager: se la sua funzione si riduce al recepimento e all’applicazione dei risultati generati dagli algoritmi viene meno la responsabilità di decidere, di assumersi il peso della scelta anche quando i dati sono ambigui, insufficienti o contraddittori. Non è pensabile rinunciare alle immense potenzialità dell’Ai. È tuttavia fondamentale evitare che l’intelligenza automatica sostituisca o diminuisca la creatività umana e difendere il ruolo strategico del manager come custode di domande, curatore di visioni, architetto dell’inatteso. L’intelligenza artificiale deve potenziare il processo di analisi ed aiutare ad interpretare i dati in modo più profondo e preciso, non rimpiazzare la volontà di rompere gli schemi, la capacità di cogliere l’inedito, il coraggio di andare controcorrente. Diventa allora essenziale promuovere una cultura 5.0 del management orientata allo sviluppo della capacità di leggere, interpretare, contestualizzare gli output degli algoritmi; che valorizzi la complessità, la dialettica tra analisi e intuizione, tra rigore e immaginazione. Serve, inoltre, sviluppare e consolidare un’etica del discernimento, che restituisca al manager la libertà di sbagliare per imparare, e non solo la responsabilità di ottimizzare. Il manager del futuro dovrà essere in grado di vedere l’eccezione là dove l’Ai rileva la regola, di scegliere l’inatteso quando il modello suggerisce il consueto. Il paradosso cognitivo non si risolve opponendosi all’onda dell’Ai, ma riscoprendo il valore umano del pensiero divergente: se l’intelligenza artificiale conosce le risposte, il manager deve avere il coraggio di porre le domande che ancora non sono state fatte.
Francesco Ciampi, Il Sole 24 Ore (18/4/2025), professore ordinario di Economia e Gestione delle imprese - Università degli Studi di Firenze
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