Ora, sempre a caccia di capri espiatori, vogliono mettere sotto accusa la città peccaminosa: troppa umanità assembrata, troppa mescolanza, niente salvifico distanziamento, troppa gente indaffarata, troppa contaminazione. E anche, peccato mortale, troppo commercio. E invece no, la vita cittadina di prima di questa catastrofe era bella proprio per le ragioni che adesso sembrano brutte. La mescolanza, rompendo l’isolamento del villaggio, rende vivi, ti fa imparare un sacco di cose, apre la mente alla contaminazione, prima di essere un tabù epidemiologico, era un arricchimento culturale, una finestra sulle diversità che entrano in contatto (e qualche volta si urtano) e si mischiano, era gente che si incontra e scambia esperienze e sentimenti. Erano cinema, teatri, grandi mostre. Erano le fiere, i mercati, gli affari e infatti nel disegno ideale della città rinascimentali i poli pubblici sono sempre tre: il palazzo del potere politico, quello dell’autorità religiosa e il mercato, le botteghe, la piazza degli scambi. Detestano, con la città una meravigliosa invenzione umana, che i provinciali di tutto il mondo, cioè tutti noi vogliono invece raggiungere e infatti si dice: «l’aria della città rende liberi», perché in città l’asfissiante controllo sociale si allenta, puoi scoprire cose nuove, puoi nasconderti se vuoi, ma solo se lo vuoi. Sei più libero, proprio perché l’aria della città è più libera, anche se è più inquinata.Dicono: ma il peccato, in Cina, è di aver costruito grandi
metropoli troppo vicine ai mercati igienicamente disastrosi dove si macellano a
cielo aperto pipistrelli e animali selvatici: ma sono quei mercati che
dovrebbero essere eliminati, non la città. È l’arcaico di tradizioni che non
rispettano norme elementari di pulizia nel mondo globalizzato che dovrebbe
essere cancellato. La città porta dinamismo, ricchezza, cultura, socialità,
loisir e impegno, arte, architettura, letteratura, estetica. (…) E ai detrattori dell’economico, del
profitto demonizzato, del benessere moderno, bisognerebbe ricordare che anche
le vetrine dei negozi e dei grandi magazzini, le insegne pubblicitarie, il
design applicato alle merci rendono bella, grande, piacevole, la città. Sempre
Marx parlava di «fantasmagoria delle merci», perché c’è qualcosa di
fantasmagorico negli oggetti, nei manufatti, nelle macchine, nei vestiti che
fanno circolare il denaro. È questa magia, magia anche della produzione che nel
Nord cittadino e metropolitano, capace di attrarre milioni di italiani del Sud
che hanno riempito le grandi fabbriche, che hanno fatto il miracolo economico
italiano, origine e matrice di un benessere diffuso e di massa mai conosciuto
nel corso della storia. La città come terra dell’opportunità, persino della
speranza di una vita migliore. Dicono: il virus ha fatto strage a Milano,
Madrid, Barcellona, Parigi, Londra, New York. Ma non è un flagello divino, è la
vulnerabilità di città che hanno fatto dello scambio, della vitalità sociale,
della tecnica, del mescolarsi la loro ragion d’essere ma anche la ragione della
loro impotenza di fronte a un virus che campa e prospera dove appunto l’umanità
si riunisce, si tocca, si contamina, si contagia. È nella loro forza che si
annida la loro debolezza. Certo, le città del mondo sono anche periferie urbane
sconsolate, slums, ricettacoli di emarginazione lontani dal cuore pulsante dei
centri metropolitani. Ma sono le politiche pubbliche che dovrebbero affrontare,
non l’idea stessa della città. È stato detto: «Roma è bellissima, peccato che
non funziona niente». Ma non bisogna sradicare Roma, bisogna liberarsi di chi
non la sa far funzionare. Funzionare come le città libere e vitali e prospere e
dinamiche e belle e piene di popolo di cui nutriamo in questi giorni di
clausura e di isolamento una struggente nostalgia.
Pierluigi Battista, Corriere della Sera (21/4/2020)
Canzone del giorno: La mia città (1992) - Luca Carboni
Clicca e ascolta: La mia città....