Le leggi sono come ragnatele, che rimangono salde quando vi urta qualcosa di molle e leggero, mentre una cosa grossa le sfonda e fugge. Lo storico e filosofo greco Plutarco (I-II sec. d.C.) nelle sue Vite parallele attribuisce questa frase a Solone che di leggi s'intendeva, essendo considerato il supremo legislatore dell'Atene del VII-VI sec. a.C. Secoli dopo, in uno dei suoi tanti romanzi - per la precisione nella Casa Nucingen - lo scrittore francese ottocentesco Honoré de Balzac riprendeva l'idea così: «Le leggi sono ragnatele che le mosche grosse sfondano, mentre le piccole vi restano impigliate». È, questo, un tema di perenne attualità. Esso può suscitare uno sdegno temporaneo; ma la realtà, ben più resistente, permane. Capita talora che tra coloro che più berciano denunciando la violazione del diritto vi sia chi si prodiga ad abbatterlo a colpi d'ascia col proprio potere, la propria influenza segreta o pubblica, l'intangibilità della propria situazione. Già i profeti biblici protestavano contro «i decreti iniqui" che negano la giustizia ai miseri e frodano del diritto i poveri» (Isaia 10, 1-2). Io, però, vorrei mettere l'accento sull'immagine della ragnatela. Nel nostro Paese in particolare, le leggi sono talmente tante da far sì che non sia più necessario sfondarle per violarle: è sufficiente che ci si aggiri con passo felpato in quel labirinto che sono i codici, per uscirne in modo indenne. Il grande Tacito nei suoi Annali già ci ammoniva: «Nella somma corruzione dello Stato, infinito è il numero delle leggi» (III, 27).
Gianfranco Ravasi, Avvenire (25/10/2002)
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