nuovigiorni

"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

sabato 22 giugno 2024

Un abisso di disumanità

Satnam Singh non ce l’ha fatta. È morto al San Camillo di Roma per la gravità delle ferite riportate nel campo vicino a Latina in cui lavorava, ma soprattutto per la negligenza degli aguzzini che l’avevano reclutato e sfruttato. Il suo non è “solo” un incidente sul lavoro, uno dei troppi che la cronaca ripropone ogni giorno e ogni giorno archivia. Morti di per sé terribili, ognuna con i suoi particolari raccapriccianti, il suo seguito di dolore e di lutto dei famigliari, il senso di ingiustizia che ripropone. Ma questa è una storia ancora diversa, per l’abisso di disumanità e di barbarie che rivela. È una storia che sembra scritta da una mente malata, da un’immaginazione perversa. Dilaniato lunedì mattina dal macchinario avvolgi-plastica a rullo con cui lavorava, è stato gettato su un pulmino a nove posti (di quelli usati dai caporali per trasportare i loro schiavi) insieme alla moglie che era con lui e scaricato di fronte a casa, col braccio mozzato appoggiato su una cassetta della frutta, mentre l’emorragia lo dissanguava e gli scagnozzi del datore di lavoro si dileguavano. Dovrà pensarci la moglie e la sindacalista da lei coinvolta a chiamare i soccorsi, che alla fine interverranno con un elicottero ma, ora lo sappiamo dai medici, troppo tardi. Sappiamo che Satnam Sing, 31 anni, originario dell’India da cui era partito per cercare in Italia un futuro, è stato abbandonato per troppo tempo senza cure, con la pressione del sangue a livelli troppo bassi per permettergli di sopravvivere al trauma multiplo subìto. Sappiamo che se fosse stato soccorso come la legge e la coscienza comandano, si sarebbe salvato. Latina non è un’area sperduta del profondo sud. Dista una cinquantina di chilometri in linea d’aria dal centro della Capitale, là dove si governa e decide. Dove ci sono i centri del potere e del controllo. Possibile che si ignorassero realtà come quella che ha segnato il destino di Satnam Singh? Che gli andirivieni dei caporali e dei loro capobastone non fossero visibili a chi dovrebbe vigilare sulle regole che egli stesso si dà? Che la presenza nei campi, a cielo aperto, ben visibili a chiunque, di uomini e donne come lui e sua moglie impiegati senza lo straccio di un contratto come bestie da soma, fosse sfuggita fino al momento della tragedia? Dove erano gli ispettori del lavoro? Dove erano le forze dell’ordine? Dov’erano le strutture regionali (di quella Regione che ora si offre di pagare i funerali, ma che non ha saputo impedire che la piaga del caporalato dilagasse nel suo territorio). Infine: Dove è stata, finora, la Coldiretti, che nelle campagne ha una presenza capillare e più di ogni altro dovrebbe vedere tutto ciò che vi accade? «Quella che si è consumata a Latina è una intollerabile tragedia che inorridisce il mondo agricolo nazionale e conferma la necessità di tenere altissima la guardia contro il fenomeno del caporalato», ha commentato l’organizzazione stessa. Ma quanti casi di aziende che ricorrono al caporalato sono stati denunciati dalle sue strutture? Sono circa 230 mila i lavoratori irregolari nei campi, vittime di caporali e imprenditori senza scrupoli. 55 mila sono donne Costituiscono all’incirca un quarto dell’intera forza lavoro impiegata in agricoltura. Possibile che nessuno veda niente? Che questi schiavi dell’età post-moderna diventino visibili solo quando muoiono? Quando muoiono! Nemmeno quando restano “solo” feriti. La qualità di un Paese si giudica anche da questi episodi. E non può definirsi Grande una nazione che li permette o li tollera, o anche solo li ignora.

Marco Revelli, La Stampa (20/06/2024)

Canzone del giorno: Another Life Goes By (2021) - Christone "Kingfish" Ingram
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venerdì 21 giugno 2024

Accettazione

Abbiamo fatto dell'accettazione dell'Altro un'insopportabile retorica etico-filosofica. Ma accettare l'altro, la sua mentalità, la sua cultura, le sue abitudini, è difficile, molto difficile anche quando questo altro lo si conosce, è un amico, lo si ama, e in più si è in tempo di pace. Non dimentichiamo che il nostro tempo di pace si sta sempre più mescolando, fuori da ogni legalità, con il tempo di guerra e che vivono con noi i parenti stretti di coloro con cui, fuori dai nostri confini nazionali, siamo in rapporto di guerra. Questa situazione richiede un po' di prudenza. Lo scontro di civiltà non è una teoria, è un fatto che chiunque può constatare. I conflitti aumenteranno. È molto probabile che nel prossimo futuro aumenteranno le guerre. 

Alfonso Berardinelli, Il Foglio (11/3/2015)

Canzone del giorno: Cento messaggi (2024) - Lazza
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mercoledì 19 giugno 2024

Borgo Egnazia

Borgo Egnazia. Se, tra fascismi risorti e guerra atomica imminente, non ci fosse da disperare, ci sarebbe da ridere. Dopo tutta la retorica sulla patria, la nazione, l’identità, la ‘cultura nostra’, l’autarchia e le radici, Giorgia Meloni convoca i sedicenti Grandi della Terra in un non-luogo, simbolo della mercificazione e della disneyficazione dell’Italia. Non in una città, in un paese, in qualcosa di vivo e di vero, ma in un santuario del turismo extralusso sorto dal nulla: disegnato, una manciata di anni fa, da uno scenografo. Una quinta di cartone, una finzione, un set: come la Venezia di Las Vegas. Non l’Italia, ma un prodotto commerciale per ricchi, ‘liberamente ispirato’ all’Italia: la quintessenza dell’Italia ‘open to meraviglia’. Desolato, il sindaco di Fasano ha scritto a Mattarella denunciando che sul francobollo commemorativo dell’evento non ci sia nessun cenno al comune in cui si svolge, ma solo “un nome che non trova corrispondenza in alcun Ente di cui si compone la Repubblica italiana”. Già, perché dire Borgo Egnazia è come dire Gardaland, o meglio come dire Four Seasons: è un marchio commerciale quello che entra nella toponomastica della Repubblica. Una colossale pubblicità di Stato all’impresa privata a cui Meloni è tanto affezionata: e dov’è “l’interesse esclusivo” della famosa Nazione, in questa catena di affetti privati che evidentemente nemmeno la disciplina e l’onore possono spezzare?

Tomaso Montanari, Il Fatto Quotidiano (17/6/2024)

Canzone del giorno: Mess Around (1990) - Robert Palmer
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domenica 16 giugno 2024

Tricolore

Scene da un tricolore. Il tricolore volante di Larissa Iapichino, spiegato come le ali di una farfalla sulla pista degli Europei di atletica all'Olimpico. Il tricolore stracciato che la ministra delle Riforme Maria Elisabetta Casellati agita sui banchi del governo in Senato come una preda di guerra. Il tricolore istituzionale consegnato da Sergio Mattarella agli azzurri in partenza per le Olimpiadi di Tokyo, in fila nei giardini del Quirinale per ricevere gli auguri presidenziali. Il tricolore calpestato nella rissa di Montecitorio che abbatte il deputato del Movimento Cinque Stelle Leonardo Donno. Il tricolore dell'orgoglio italiano tra i vessilli dei potenti del mondo a Borgo Egnazia. Il tricolore della nostra miseria nei palazzi delle istituzioni dove la destra patriottica e la sinistra europeista e internazionalista si scambiano i ruoli. La bandiera la impugnano per protesta quelli che l'hanno sempre guardata con distacco, mentre quegli altri, quelli che se ne sono ammantati, che l'hanno trasformata in tratto identitario e tabù collettivo, la buttano per terra, urlano per sovrastare chi la esibisce, alzano le mani. I due giorni di caotiche zuffe alla Camera e al Senato, dove procedono le votazioni sull'Autonomia differenziata (Camera) e la riforma costituzionale del premierato (Senato) restituiscono un'immagine incattivita del
confronto in atto. E furibonda la Lega, reduce da una sconfitta elettorale che sembra aver allentato ogni freno inibitorio. Ma è inacidita e iper-reattiva anche la destra, che con i numeri e i risultati che ha avuto potrebbe tollerare con più aplomb qualche prevedibile protesta dell'opposizione. E invece no, saltano i nervi. Saltano perché la questione del tricolore tocca un off-limit semantico: il mondo conservatore può accettare tutto ma non il rubabandiera sul tema dell'identità nazionale. Il tricolore è il loro brand e lo pensavano coperto da un copyright senza limiti. Vederlo nelle mani degli «altri», usato per contrastare le due riforme-guida della legislatura, fa perdere la testa. La destra è tricolore per definizione, dalla fiamma tricolore delle origini fino al bollino tricolore del recente patto anti-inflazione o al disegno di legge per multare chi espone il tricolore «in modo sciatto o a brandelli». È una struttura archetipa, un dato seminale, finora mai messo a rischio dagli eventi perché la sinistra verso il tricolore ha sempre provato una istintiva diffidenza. Negli '80 guardò con sospetto persino le piazze imbandierate per la vittoria ai Mondiali di calcio («nazionalismo di ritorno, xenofobia insorgente»). Vide nel massiccio spiegamento tricolore ai comizi di Bettino Craxi la conferma del suo slittamento a destra. E quando Silvio Berlusconi piazzò un tricolore nel simbolo del suo movimento appena nato, ci trovò la riprova che la bandiera nazionale e tutto il relativo corollario (esibizioni tricolori, frecce tricolori, successi sportivi tricolori) fosse farina del diavolo da cui tenersi alla larga. «Quando ero ragazzo - raccontò una volta Piero Sansonetti, allora direttore di Liberazione - c'erano solo due tipi di cortei: quelli con le bandiere rosse e quelli con le bandiere tricolori. I primi erano comunisti, i secondi fascisti». Capirete l'impatto dell'inversione di senso vista in questi giorni alla Camera e al Senato: i «comunisti» che sventolano tricolore in faccia ai «fascisti» per segnalare il portato anti-patriottico di due riforme in dirittura di arrivo. Ma il colmo del paradosso è l'effetto del rubabandiera sui leghisti che in tempi non troppo lontani il tricolore lo schifavano del tutto - «Chi espone il tricolore è un somaro» (Umberto Bossi), «Il tricolore non è la mia bandiera» (Matteo Salvini) - e adesso, dopo la svolta sovranista, impazziscono alla vista del medesimo impugnato sui banchi dell'opposizione. Lesa maestà, leso tricolore, non vi permettete o vi meniamo. In questo impazzimento generale trovare un senso alle zuffe tricolori è pressoché impossibile. Forse è meglio rifugiarsi nell'altro tricolore, quello che sventola lontano dai palazzi della politica. Nei giardini dove gli atleti azzurri sorridono sperando di portare la bandiera sul podio olimpico più alto. Nell'esultanza delle 24 medaglie degli Europei di atletica, Marcell Jacobs, Gianmarco Tamberi, Antonella Palmisano, Larissa Iapichino e tutti gli altri, italiani doc anche se variamente colorati e con alberi genealogici che conducono altrove. Nella compostezza del presidente Sergio Mattarella che tiene insieme le identità incasinate di questa Italia dove il tricolore non si capisce più cos'è. Recita l'articolo 12 della Costituzione: «La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a bande verticali e di eguali dimensioni». Tutto il resto - il significato unificante, il rispetto, la capacità di riconoscere valori super partes - dovremmo mettercelo noi, ma ancora non ci siamo riusciti.

Flavia Perina, La Stampa (14/06/2024)

Canzone del giorno: Dov'è l'Italia (2019) - Motta
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venerdì 14 giugno 2024

Superbonus

Quanto rilevante è quantitativamente il superbonus? 200 miliardi di euro sono una bella cifra. Mettete 200 miliardi di monete da un euro una vicina all’altra e coprite 46.000 km, più della lunghezza dell’Equatore. Scherzi a parte, 200 miliardi sono il costo di quasi tre anni di pubblica istruzione (scuole elementari, medie, superiori e università) o di oltre tre anni di investimenti fissi della pubblica amministrazione. Una parte del costo ha già impattato sui conti pubblici riducendo le entrate. Da qui al 2028 si perderanno altri 30 miliardi di entrate l’anno. Senza queste entrate, il rapporto tra debito pubblico e Pil, che sarebbe altrimenti sceso seppure solo di poco, aumenterà raggiungendo un picco superiore al 140% nel 2028. Questo aumento non violerà le regole europee sui conti pubblici perché queste consentono un aumento del debito finché un Paese è sottoposto a “procedura di deficit eccessivo”, come accadrà a noi e ad altri Paesi con deficit superiore al 3% del Pil. Ma complicherà comunque la gestione del nostro debito, soprattutto in caso di shock economici inattesi. Ho già espresso in passato la mia valutazione del superbonus: un’esagerazione in termini di generosità del provvedimento, difficoltà di prevederne l’effetto, eccessiva pressione generata su un singolo settore dell’economia e implicazioni per altri settori della spesa pubblica che sono restati privi delle necessarie risorse. Non mi ripeto. Aggiungo solo una previsione: il superbonus entrerà nei libri di finanza pubblica come esempio di misura con un buon fine, la cui realizzazione è stata disastrosa.

Carlo Cottarelli, L’Espresso (24/5/2024)

Canzone del giorno: Trouble Comes Running (2010) - Spoon
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martedì 11 giugno 2024

Ridere è un mistero

Ridere è un mistero.
Ci sono circa duemila modi di ridere, secondo gli scienziati, e se penso a tutto il tempo che ci hanno messo a catalogarli mi viene da ridere.
Si ride anche di quello che non si vorrebbe.
Si può ridere con razzismo, con cinismo, con disprezzo. A tutti noi qualche volta nella vita capita di fare una di queste risate.
Ridere nasce da equilibri e squilibri molto complicati. Il tempo comico o ce l’hai o non ce l’hai. Se voi siete dei NON raccontatori di barzellette, la vostra condanna è eterna. Questo non vuole dire che non avete senso dell’umorismo, semplicemente che non avete in dono le pause, i ritmi, o la dilatazione teatrale necessaria per raccontarle. E se insistete a raccontarle, avrete in risposta da chi ascolta quel sorriso di compatimento che è peggio di uno schiaffo.
A meno che non siate molto potenti, allora i sottoposti rideranno ma è puro servilismo. La risata va guadagnata. Un attore sa che ogni sera il pubblico riderà spesso negli stessi punti, ma talvolta in punti diversi, o in ritardo, in controtempo, oppure riderà quando non c’è da ridere. O non riderà affatto. Ma il vero attore comico si vede quando, passata l’inerzia iniziale di simpatia, conquista tutti, anche quelli che non sono disposti a ridere. Le risate finte televisive sono un trucco che ogni attore comico dovrebbe rifiutare.
Peggio che simulare l’orgasmo.
Nei libri le risate finte non ci sono. Però c’è gente che legge i libri così bene che fa ridere a ogni pagina. I bambini ridono quando si stupiscono, dovrebbero esserci di lezione. Il riso dovrebbe nascere dallo stupore, non dalla serialità o dai tormentoni.
Si può raccontare e far ridere, ma adesso si preferiscono le mitragliate di brevi gag, il racconto non è importante. Ridere è terapeutico ma ridere sempre e troppo, è segno di una patologia di imbecillità. I politici non ridono, sogghignano.
Ridere è una verità penultima, la propaganda e la serietà minacciosa dicono di possedere la verità ultima, ma noi sappiamo che non è l’ultima, è l’ultima per un breve tempo. È molto difficile ridere di sé stessi. Bisognerebbe tenere una statuetta di Totò sul comodino che ogni tanto ci dica “mi faccia il piacere!” quando facciamo gli sbruffoni. (…) Dico Totò perché contiene tutto il mistero e le contraddizioni del comico e del ridere. Bellissimo e brutto, volgare e nobile, sguaiato e raffinato, allegrissimo e triste creatore di linguaggio e suo sabotatore. Sempre inafferrabile. E mi fanno ancora ridere i cartoni animati, Vilcoyote per me è il Beckett dei cartoons. Il duello di magia della Spada nella Roccia è la mia droga. Ogni tanto devo rivederlo. Non rido oggi di quel che ridevo ieri e domani chissà? Si può ridere anche della morte, e molte strane morti fanno pensare che talvolta, anche la Vecchia con la Falce abbia sense of humor. Ci sono cose su cui faccio fatica a ridere e inventare battute. Sono ad esempio la guerra e la catastrofe climatica. Divento pedante e serissimo. Ma altri dicono che si deve e si può ridere di tutto. A loro lascio questi argomenti.
I miei libri mi fanno ridere? Se li rileggo, qualche volta sì, e mi fa piacere. Mi fa piacere che ogni lettore rida di una pagina diversa, di una battuta diversa e, come in teatro, rida anche quando non c’è niente da ridere.

Stefano Benni, Il Fatto quotidiano (30/8/2019)

Canzone del giorno: Laughing At Life (1997) - Tony Bennett
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domenica 9 giugno 2024

Assioma di Cole

Assioma di Cole

«La somma dell’intelligenza sulla terra è costante. La popolazione è in aumento».

Arthur Bloch, La legge di Murphy


Canzone del giorno: Forty Miles From Nowhere (2017) - Rodney Crowell
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giovedì 6 giugno 2024

Europeismo dei fatti

Le tensioni geopolitiche internazionali mai così acute e la frammentazione economica che ne è causa ma anche effetto rischiano di far pensare che la situazione sia ormai troppo grave o anche solo troppo complessa per essere governabile e governata. Di qui la propaganda, il “liberi tutti”, le spinte alla chiusura, gli schemi che saltano uno dopo l’altro nella politica e nella comunicazione, che finiscono per accelerare il tracollo. In realtà ci sono segnali di resilienza che non possono essere lasciati cadere, ci sono sfide che possono ancora essere vinte: è troppo presto arrendersi a scenari inerziali. Anche in Europa, anche in Italia, protagoniste di una marginalizzazione che sta nei numeri, ma che non rappresenta ancora la condanna a un inesorabile declino. Purché le due dimensioni, quella nazionale e quella sovranazionale, stiano insieme. Le elezioni europee, destinate probabilmente più ad aprire che a chiudere una fase di profonda riflessione sui tempi e i modi del processo di integrazione, possono essere uno spartiacque. Nelle sue prime considerazioni finali, il governatore della Banca d'Italia Fabio Panetta si è tenuto lontano anni luce da questioni politiche o tanto più elettorali, ma l’Europa – insieme alla tecnologia – è stata elemento centrale del suo ragionamento. In un mondo in cui il Vecchio continente pesa solo più per il 5,7% della popolazione e per il 18% del Pil (contro il 26% di inizio millennio), è tutta l’Europa a rischiare di sparire, figuriamoci un Paese più vecchio e più lento della media com’è l’Italia (ma pure la Germania): di qui la necessità di un europeismo dei fatti, capace di smarcarsi da quegli eccessi di enfasi di chi è aprioristicamente pro o contro l’Europa e che sappia riconoscere come non ci siano alternative percorribili. Perché se è vero che per molti, per fortuna, il processo di integrazione è un fine, per tutti resta comunque l’unico mezzo per tenere il passo di un mondo di superpotenze globali. L’alternativa della chiusura equivale, questa volta sì, all’emarginazione. E il governatore l’ha argomentato chiaramente su più piani, a partire da quello del lavoro e della produttività, male atavico italiano. C’è anzitutto da alzare il tasso d’occupazione, ha detto, poi da lavorare sulla leva della produttività, ma anche da aprirsi a nuove risorse: da soli, è il messaggio, non possiamo andare lontano, «il calo demografico pesa sul lavoro», per questo «serve un flusso maggiore di immigrati regolari». E il discorso vale per tutte le sfide che contano, che sia il mercato unico dei capitali dove l’Italia – con i risparmi delle sue famiglie – ha più da dare che chiedere, o la rivoluzione tecnologica dell’intelligenza artificiale, che può portare opportunità oltre che minacce, ma solo se sarà regolata e finanziata a livello di continente e non di singoli Paesi. A livello istituzionale c’è un ingranaggio chiave su cui lavorare, ha ricordato Panetta, ed è l’allineamento tra politica monetaria – che è comune, grazie alla Bce – e quella di bilancio, dove prevale ancora il livello nazionale. Finché le due leve non agiranno in coerenza, alle istituzioni di Bruxelles spetterà anzitutto controllare (e bacchettare), mancando di quella forza costruttiva e propulsiva su cui possono contare gli Stati Uniti, dove la Federal Reserve difficilmente si smarca dalla Casa Bianca. Ci vuole tempo, ma anche solo l’esperienza del debito comune europeo effettuata con i programmi postpandemici suggeriscono che uno dopo l’altro possono cadere molti ostacoli, spesso culturali, su una strada che non ha alternative.

Marco Ferrando, Avvenire (1/6/24)

Canzone del giorno: Shine  On Through (1978) - Elton John
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martedì 4 giugno 2024

Nulla dies sine linea


Nulla dies sine linea
 

Nessun giorno senza una linea (Plinio, Storia Nat., XXXV, 36) 

Frase attribuita da Plinio il Vecchio (23 -79) al pittore greco Apelle, del quale si dice che non lasciasse passare giorno senza tratteggiare col pennello qualche linea. La locuzione sollecita la necessità dell’esercizio quotidiano per progredire senza permettere che passi giorno senza avere compiuto un passo, sia pur piccolo, verso la meta che ci si prefigge di raggiungere.

Canzone del giorno: Hang In Long Enough (1989) - Phil Collins
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domenica 2 giugno 2024

Urne europee

Pillinini, da google.it

















Canzone del giorno: Enemy (2012) - Nelly Furtado
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sabato 1 giugno 2024

Playlist Maggio 2024

     1.      Steely Dan, Dirty Work – (Can’t Buy a Thrill – 1972) – Sicurezza sul lavoro

2.      Pete Seeger, Where Have All the Flowers – 1955 – All’altezza dei fiori

3.      Nomadi, Salve sono la giustizia – (Liberi di volare – 2000) – Ingiustizia

4.      Rod Stewart, Passion – (Foolish Behaviour – 1980) – Inquinamento politico

5.      James Senese & Napoli Centrale, Povero munno – (‘O sanghe – 2016) – Povero munno

6.      Bruce Dickinson, Road To Hell – (Accident of Birth – 1997) – Quadrilatero maledetto

7.      The Cribs, Ignore The Ignorant – (Ignore The Ignorant – 2009) – Paese di ignoranti

8.      Ludovico Einaudi, Brothers – (In a Time Lapse – 2013) – Cultura europea

9.      Nick Cave and the Bad Seeds, O Children – (The Abattoir Blues Tour – 2007) – Fecondità

10.   Dido, Life for Rent – (Life for Rent – 2003) – Vantaggiosa

11.   John Mayall, Unanswered Questions – (Back To The Roots – 1971) – Domande a chi pensa che…

12.   Bob Dylan, A Hard Rain’s A-Gonna Fall – (The Freewheelin’ Bob Dylan – 1963) – A Hard Rain

13.   Frank Sinatra, Night and Day – (A Swingin’ Affair – 1957) – C’era una volta in America