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"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

martedì 11 giugno 2024

Ridere è un mistero

Ridere è un mistero.
Ci sono circa duemila modi di ridere, secondo gli scienziati, e se penso a tutto il tempo che ci hanno messo a catalogarli mi viene da ridere.
Si ride anche di quello che non si vorrebbe.
Si può ridere con razzismo, con cinismo, con disprezzo. A tutti noi qualche volta nella vita capita di fare una di queste risate.
Ridere nasce da equilibri e squilibri molto complicati. Il tempo comico o ce l’hai o non ce l’hai. Se voi siete dei NON raccontatori di barzellette, la vostra condanna è eterna. Questo non vuole dire che non avete senso dell’umorismo, semplicemente che non avete in dono le pause, i ritmi, o la dilatazione teatrale necessaria per raccontarle. E se insistete a raccontarle, avrete in risposta da chi ascolta quel sorriso di compatimento che è peggio di uno schiaffo.
A meno che non siate molto potenti, allora i sottoposti rideranno ma è puro servilismo. La risata va guadagnata. Un attore sa che ogni sera il pubblico riderà spesso negli stessi punti, ma talvolta in punti diversi, o in ritardo, in controtempo, oppure riderà quando non c’è da ridere. O non riderà affatto. Ma il vero attore comico si vede quando, passata l’inerzia iniziale di simpatia, conquista tutti, anche quelli che non sono disposti a ridere. Le risate finte televisive sono un trucco che ogni attore comico dovrebbe rifiutare.
Peggio che simulare l’orgasmo.
Nei libri le risate finte non ci sono. Però c’è gente che legge i libri così bene che fa ridere a ogni pagina. I bambini ridono quando si stupiscono, dovrebbero esserci di lezione. Il riso dovrebbe nascere dallo stupore, non dalla serialità o dai tormentoni.
Si può raccontare e far ridere, ma adesso si preferiscono le mitragliate di brevi gag, il racconto non è importante. Ridere è terapeutico ma ridere sempre e troppo, è segno di una patologia di imbecillità. I politici non ridono, sogghignano.
Ridere è una verità penultima, la propaganda e la serietà minacciosa dicono di possedere la verità ultima, ma noi sappiamo che non è l’ultima, è l’ultima per un breve tempo. È molto difficile ridere di sé stessi. Bisognerebbe tenere una statuetta di Totò sul comodino che ogni tanto ci dica “mi faccia il piacere!” quando facciamo gli sbruffoni. (…) Dico Totò perché contiene tutto il mistero e le contraddizioni del comico e del ridere. Bellissimo e brutto, volgare e nobile, sguaiato e raffinato, allegrissimo e triste creatore di linguaggio e suo sabotatore. Sempre inafferrabile. E mi fanno ancora ridere i cartoni animati, Vilcoyote per me è il Beckett dei cartoons. Il duello di magia della Spada nella Roccia è la mia droga. Ogni tanto devo rivederlo. Non rido oggi di quel che ridevo ieri e domani chissà? Si può ridere anche della morte, e molte strane morti fanno pensare che talvolta, anche la Vecchia con la Falce abbia sense of humor. Ci sono cose su cui faccio fatica a ridere e inventare battute. Sono ad esempio la guerra e la catastrofe climatica. Divento pedante e serissimo. Ma altri dicono che si deve e si può ridere di tutto. A loro lascio questi argomenti.
I miei libri mi fanno ridere? Se li rileggo, qualche volta sì, e mi fa piacere. Mi fa piacere che ogni lettore rida di una pagina diversa, di una battuta diversa e, come in teatro, rida anche quando non c’è niente da ridere.

Stefano Benni, Il Fatto quotidiano (30/8/2019)

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