Le tensioni geopolitiche internazionali mai così acute e la frammentazione economica che ne è causa ma anche effetto rischiano di far pensare che la situazione sia ormai troppo grave o anche solo troppo complessa per essere governabile e governata. Di qui la propaganda, il “liberi tutti”, le spinte alla chiusura, gli schemi che saltano uno dopo l’altro nella politica e nella comunicazione, che finiscono per accelerare il tracollo. In realtà ci sono segnali di resilienza che non possono essere lasciati cadere, ci sono sfide che possono ancora essere vinte: è troppo presto arrendersi a scenari inerziali. Anche in Europa, anche in Italia, protagoniste di una marginalizzazione che sta nei numeri, ma che non rappresenta ancora la condanna a un inesorabile declino. Purché le due dimensioni, quella nazionale e quella sovranazionale, stiano insieme. Le elezioni europee, destinate probabilmente più ad aprire che a chiudere una fase di profonda riflessione sui tempi e i modi del processo di integrazione, possono essere uno spartiacque. Nelle sue prime considerazioni finali, il governatore della Banca d'Italia Fabio Panetta si è tenuto lontano anni luce da questioni politiche o tanto più elettorali, ma l’Europa – insieme alla tecnologia – è stata elemento centrale del suo ragionamento. In un mondo in cui il Vecchio continente pesa solo più per il 5,7% della popolazione e per il 18% del Pil (contro il 26% di inizio millennio), è tutta l’Europa a rischiare di sparire, figuriamoci un Paese più vecchio e più lento della media com’è l’Italia (ma pure la Germania): di qui la necessità di un europeismo dei fatti, capace di smarcarsi da quegli eccessi di enfasi di chi è aprioristicamente pro o contro l’Europa e che sappia riconoscere come non ci siano alternative percorribili. Perché se è vero che per molti, per fortuna, il processo di integrazione è un fine, per tutti resta comunque l’unico mezzo per tenere il passo di un mondo di superpotenze globali. L’alternativa della chiusura equivale, questa volta sì, all’emarginazione. E il governatore l’ha argomentato chiaramente su più piani, a partire da quello del lavoro e della produttività, male atavico italiano. C’è anzitutto da alzare il tasso d’occupazione, ha detto, poi da lavorare sulla leva della produttività, ma anche da aprirsi a nuove risorse: da soli, è il messaggio, non possiamo andare lontano, «il calo demografico pesa sul lavoro», per questo «serve un flusso maggiore di immigrati regolari». E il discorso vale per tutte le sfide che contano, che sia il mercato unico dei capitali dove l’Italia – con i risparmi delle sue famiglie – ha più da dare che chiedere, o la rivoluzione tecnologica dell’intelligenza artificiale, che può portare opportunità oltre che minacce, ma solo se sarà regolata e finanziata a livello di continente e non di singoli Paesi. A livello istituzionale c’è un ingranaggio chiave su cui lavorare, ha ricordato Panetta, ed è l’allineamento tra politica monetaria – che è comune, grazie alla Bce – e quella di bilancio, dove prevale ancora il livello nazionale. Finché le due leve non agiranno in coerenza, alle istituzioni di Bruxelles spetterà anzitutto controllare (e bacchettare), mancando di quella forza costruttiva e propulsiva su cui possono contare gli Stati Uniti, dove la Federal Reserve difficilmente si smarca dalla Casa Bianca. Ci vuole tempo, ma anche solo l’esperienza del debito comune europeo effettuata con i programmi postpandemici suggeriscono che uno dopo l’altro possono cadere molti ostacoli, spesso culturali, su una strada che non ha alternative.
Marco Ferrando, Avvenire (1/6/24)
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