Paul Lynch, irlandese, 46 anni, già paragonato a McCarthy, Faulkner, Dostoevskij e Beckett per la sua prosa epica e poetica, fresco vincitore del Booker Prize 2023 con lo struggente romanzo “Prophet Song”, quando ha deciso di diventare scrittore?
«In Sicilia. Autunno 2007».
Ah, ci racconti.
«Sono giornalista, in vacanza a Lipari, in taxi verso l’hotel. Guardo il mar Tirreno. All’improvviso, un’epifania, fortissima. Capisco che la mia vita sino ad allora è stata una menzogna. Allora mi convinco: sarò uno scrittore. In un attimo, tutte le mie paure evaporano».
Intervista di Antonello Gurrera, la Repubblica (29/11/2023)
Canzone del giorno:What a Difference A Day Makes (1959) - Dinah Washington
La mobilitazione degli uomini. Questo serve. Una mobilitazione delle coscienze che va poggiata su questo assunto: il coraggio di chiedere scusa tutti insieme, pur non essendo colpevoli di nulla la stragrande maggioranza di noi, per le violenze sulle donne. Sarebbe il modo migliore, per l’insieme dei maschi impressionati e sconvolti dall’omicidio di Giulia Cecchettin e dalla strage delle oltre cento donne uccise quest’anno da uomini a cui erano legate. E senza contare l’infinità di comportamenti minacciosi e aggressivi, maschilisti e misogini che affollano la vita quotidiana, di onorare la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Nella quale è prevista anche la manifestazione di oggi a Roma, al Circo Massimo. Non è retorica e demagogia, e tantomeno si tratta di un rito di degradazione o di un mea culpa di comodo, chiedere scusa in quanto uomini. E’ viceversa un atto di responsabilità verso le nostre figlie e i nostri figli, perché siano liberi dalla cultura della sopraffazione. Non solo. Farsi carico tutti dell’obbrobrio di pochi, che sono sempre troppi, significa alzare il livello dell’allarme sociale; spezzare certa abitudine alla minimizzazione; lanciare un grido collettivo contro la virilità tossica che fa parte del contesto generale e di quel substrato antropologico di maschilismo e di costume patriarcale che purtroppo la modernità non è riuscita a cancellare del tutto, relegandolo nel passato più infrequentabile. Assumersi la responsabilità in nome di altri, è insomma un avvertimento affinché la barbarie venga riconosciuta come tale da tutti ma proprio da tutti, senza distinzioni di genere, di colori politici, di origini sociali e familiari. Ma soprattutto: se gli uomini in quanto uomini si mobilitano chiedendo scusa e dicendo basta, si riesce forse a isolare meglio quelli che fanno violenza, a evidenziare pienamente la loro condizione di inciviltà omicida, a togliere loro l’acqua in cui sguazzano che è quella dell’assordante silenzio di troppi maschi, dell’indifferenza, della sottovalutazione. E perfino di quel sentore di giustificazionismo che, sia pure non riferito di solito ai femminicidi ma ad altre forme di prevaricazione ritenute - a torto - meno gravi, si avverte spesso rispetto a comportamenti violenti. […] La mobilitazione degli uomini va intesa come un fatto sociale e di sicurezza urbana e familiare (anche gli uomini possono e devono presentare denunce) e insieme come un poderoso scatto in avanti a livello culturale. L’uomo forte, nel senso di emancipato e in grado di sostenere la complessità della vita contemporanea e della convivenza paritaria con l’altro sesso, è quello che combatte a viso aperto gli stereotipi della mascolinità. Un cambio di paradigma è necessario. Sarà un percorso lungo ma va imboccato subito e decisamente per un senso di civiltà e di giustizia. E contro la realtà negativa di una società asimmetrica, dove è inutile e ridondante continuare a parlare di diseguaglianze se non si mette mano in primo luogo alle diseguaglianze di genere che, oltretutto, le donne pagano anche con le violenze che subiscono.
Mario Ajello, Il Messaggero (25/11/2023)
Canzone del giorno:Soul Of A Man (2006) - Irma Thomas
E’ sempre sbagliato fare una graduatoria del dolore, ma questa Giulia uccisa quando stava per laurearsi, dunque quando stava per diventare più Giulia, più autonoma e più libera, è una cosa che sbriciola il cuore. Fa piangere, scusate se lo dico così, in due parole. Per molti maschi essere maschi è una malattia, la cognizione che ogni donna appartenga solamente a se stessa li fa impazzire di paura. Escono di senno di fronte al fiorire della libertà. Il controllo delle donne, che è stata l’ossessione ideologica, millenaria, della società patriarcale, non è più determinabile per legge: almeno in quel pezzo di mondo che chiamiamo Occidente, il patriarcato è una forma morta. Ma la sostanza no, non è morta. Il maschio, che ha perso la sua presa istituzionale sulla persona donna, per disperazione si affida alla
presa fisica. Minaccia, urla, picchia e ammazza. Anche parecchi maschi hanno festeggiato e si sono sentiti meglio, sulle macerie di un ordine che era fondato sulla sottomissione della metà del genere umano (altrove, verso Sud e verso Est, quel muro è ancora Legge). Ma altri maschi, in mezzo a noi, quella Legge se la portano dentro, l’hanno introiettata, è la sola maniera con la quale riescono a rapportarsi alle donne: “o sei mia, o non hai il diritto di esistere”. Colpisce, ferisce che un ragazzo nato dopo il Duemila possa averlo fatto. Non un vecchio patriarca spodestato, non un bullo conclamato, non un capobranco. No, uno studente dalla faccia gentile, figlio dei nostri tempi. Non si riesce nemmeno a odiarlo. Non si trova mezza parola da dirgli.
Michele Serra, L’Amaca (la Repubblica, 19/11/2023)
Canzone del giorno:Lies And Rumour (1992) - Alannah Myles
A lungo mi sono chiesta come fosse possibile che persone intelligenti, il più delle volte colte, spesso autonome economicamente, accettassero di essere oggetto di violenza all'interno della propria relazione. Adesso so che contano l'educazione femminile, frutto di secoli di addestramento alla subordinazione, e anche la parallela formazione maschile, imbevuta di proiezioni dominanti e possessive. Contano i modelli sociali patriarcali, e conta moltissimo la sensibilità popolare educata all'idea che uno schiaffo sia solo una carezza veloce, nella convinzione diffusa che l'amore sia tale anche quando procura occhi pesti, zigomi lividi e sospette cadute dalle scale. Conta perfino che ogni titolo di quotidiano insista nel definire «delitto passionale» l'omicidio di una donna per mano del suo uomo, come se la morte fosse amore portato alle sue estreme conseguenze.
Michela Murgia (1972 – 2023), Ave Mary (2011 – Ed.Einaudi)
Raramente un artista, durante un suo concerto, esegue tutti i brani del suo ultimo album. Ma se le canzoni sono ritenute “urgenti”, allora non si possono differire nel tempo, anzi diviene necessario fare in modo che il pubblico si concentri proprio su quelle ultime creazioni musicali.
Vinicio Capossela, durante il suo tour nei teatri, ha deciso di fare proprio questa scelta: “Tredici canzoni urgenti” è un lavoro che va ascoltato per intero, magari con qualche “necessaria” presentazione prima dell’esecuzione, ma con l’obiettivo di rendere partecipi e consapevoli gli spettatori.
Chi ha avuto modo di assistere, in queste ultime settimane, a uno dei suoi concerti intuisce facilmente perché il suo ultimo album ha trionfato al Premio Tenco come “Miglior Album in Assoluto” del 2023.
I tredici brani eseguiti dal vivo confermano l’originalità di un progetto musicale che conferisce ad ogni inedito originalità, spessore, raffinatezza e forza etica. Attraverso le sue melodie e i suoi testi, Vinicio Capossela risveglia la nostra attenzione e ci suggerisce di guardare ciò che è veramente impellente nel nostro presente, nel tentativo di non farsi risucchiare dal moto dell’indifferenza e del disimpegno.
Un album colmo di urgenze e riflessioni. Ognuna delle tredici canzoni racchiude qualcosa di prezioso. Traccia dopo traccia si affrontano temi che hanno a che fare con le guerre (La crociata dei ragazzi, Gloria all’Archibugio, Staffette in bicicletta), con la psicosi consumistica (All you can eat, Sul divano occidentale, Cha Cha Chaf della pozzanghera), con la tossicità dell’omofobia (La cattiva educazione), con l’armonia dell’amore (Il bene rifugio), con le urgenze esistenziali (Ariosto Governatore, Il tempo dei regali), con le riflessioni politiche (La parte del torto, Minorità).
Non ne abbiamo potuto fare a meno: abbiamo citato tutte le canzoni dell’album. Anzi, per concludere ne manca una che, oltre a chiudere l’album, è eseguita da Vinicio Capossela come ultima canzone del suo concerto: “Con i tasti che ci abbiamo”, un brano che, nonostante le paure e le difficoltà di ogni giorno, ci esorta a non arrenderci, a fare la nostra parte e così “di un limite faremo, una possibilità”.
Con i tasti che ci abbiamo Solo quelli suoneremo Una melodia sdentata Una melodia trovata Con i tasti che ci abbiamo Bianchi e neri, giocheremo E di un limite faremo Una possibilità
Canzone del giorno:Vinicio Capossela (2023) - Vinicio Capossela
In Medio Oriente è in corso un dramma che sembra non avere fine. 1.400 israeliani sono stati massacrati dai terroristi di Hamas. In risposta, le forze armate israeliane hanno ucciso più di 10.000 palestinesi durante le operazioni militari condotte a Gaza. Migliaia e migliaia di palestinesi sono stati costretti a lasciare Gaza, ma l'insicurezza pervade anche la popolazione israeliana. Approfittando della guerra, in Cisgiordania gruppi di coloni ebrei occupano con la violenza terreni palestinesi, fomentando ulteriormente il sentimento anti israeliano nel mondo arabo. Come se non bastasse, l'opinione pubblica occidentale è spaccata in due fronti contrapposti, come se il "giusto" e il "torto" fossero distribuiti nell'uno o nell'altro fronte. Perché si è giunti a questo punto? La mia risposta è la seguente: per via della progressiva sacralizzazione del conflitto medio orientale. Mi spiego. Lo scontro tra israeliani e palestinesi è divenuto sempre più dominato dalle rispettive componenti religiose. Più che tra due popoli, quello scontro viene vissuto come uno scontro tra due religioni, l'ebraismo e l'islamismo. Per il primo, la Palestina è la terra biblica che appartiene spiritualmente agli ebrei, il luogo dove questi ultimi possono finalmente ricostituirsi come popolo, perché lì risiede la fonte della loro identità. Per il secondo, la Palestina è parte imprescindibile di un mondo mussulmano più ampio, dotato di una identità religiosa (sunnita) che va al di là delle barriere nazionali tra i Paesi arabi. In tale rappresentazione sacrale del conflitto non vi sono differenze all'interno delle rispettive comunità religiose, tanto meno differenze tra queste ultime e le componenti non religiose. La sacralizzazione è inconciliabile con il pluralismo, sia tra i credenti della stessa fede che tra questi ultimi e i non credenti. La sacralizzazione è l'espressione di una cultura fondamentalista, secondo la quale la religione è un fenomeno unitario, in quanto basata su fondamenti dogmatici. Ogni religione monoteista, nessuna esclusa, ha una vocazione fondamentalista, ovvero ha la predisposizione a disconoscere qualsiasi verità diversa dal dogma che l'ha fondata. Tuttavia, in particolare in Occidente, i processi di secolarizzazione hanno progressivamente spinto le religioni a rappresentarsi, nella sfera pubblica, come parte di un tutto, non già come monopoliste del tutto. Così, il dialogo è diventato per loro una necessità per rapportarsi con il mondo esterno, oltre che per dare voce alle differenze al loro interno. Ciò ha consentito il mutuo riconoscimento tra i credenti, oltre che tra le loro comunità di fede. Tale mutuo riconoscimento è invece impedito dalla sacralizzazione del conflitto medio orientale. […] Secondo le ricerche di John Huber e Ahmed Ezzeldin Mohamed, l'influenza della religione è cresciuta nelle elezioni mentre è diminuita nelle società occidentali. È divenuta una fonte sostitutiva di identificazione politica. Così, inconsapevolmente o meno, essa ha finito per giustificare leader e politiche che vogliono mettere in discussione il contesto pluralistico delle società occidentali, interpretato come la causa della degenerazione valoriale di queste ultime. In nome di valori non-negoziabili (come la difesa della vita, della famiglia naturale o delle gerarchie tra generi), i leader della nuova destra hanno sferrato un attacco senza precedenti all'impianto liberale delle nostre società. Anche da noi, c'è chi non accetta che la politica sia il luogo della ricomposizione delle differenze. Insomma, la sacralizzazione del conflitto medio-orientale costituisce un ostacolo alla risoluzione di quest'ultimo. La sacralizzazione è però una minaccia anche in Occidente, in quanto disconosce i fondamenti pluralistici delle nostre società. Non sarebbe meglio lasciare Dio alle coscienze individuali e trovare invece compromessi politici su tutto il resto?
Esordio alla regia di grande personalità quello di
Paola Cortellesi, per di più riservandosi un ruolo da protagonista che
conferisce spessore e delicatezza a una storia sulla forza delle donne. C’è ancora domani è un film ambientato nella primavera
del 1946 (il riferimento temporale è importante e alla fine del film si capirà
il perché) che si sofferma su ferite, dolori e voglia di emancipazione di una donna
nella Roma del secondo dopoguerra, impegnata a barcamenarsi fra le percosse dell’irascibile
marito (interpretato in modo eccellente da Valerio Mastrandrea) e la gestione
dei tre figli. Progredire all’interno di una società dalla mentalità
patriarcale significa per Delia/Cortellesi intraprendere un percorso irto di
ostacoli e solo quando la primogenita della coppia decide di fidanzarsi,
l’apparente remissività della protagonista si trasformerà, pian piano, in una
vigorosa temerarietà.
Un’opera prima sorprendente che amalgama, con grande
intensità, neorealismo (scelta azzeccatissima girare il film in bianco e nero),
commedia all’italiana, situazioni drammatiche e, anche, puntuali momenti
musicali con la deliziosa scelta di inserire delle canzoni contemporanee a fare
da cornice in alcune parti salienti del film.
Tante le idee interessanti e gli accorgimenti originali.
Una sceneggiatura che permette dei passaggi narrativi in grado di emozionare e
anche far commuovere. La nostalgia racchiusa nei brevi incontri fra Delia e il
suo ex fidanzato di gioventù interpretato dal bravo Vinicio Marchioni (tenerissima
la sequenza nelle quali i due ridono dopo essersi scambiati della cioccolata e
la macchina da presa inquadra i loro sorrisi con i denti sporchi), la sincera
amicizia che la lega ad una fruttivendola (interpretata con efficace
espressività da Emanuela Fanelli), il rapporto in continua trasformazione con
la figlia (Romana Maggiora Vergano).
Una regia accurata che si contraddistingue anche nelle
parti più ironico-sarcastiche.
Si sorride assistendo alle chiacchere delle petulanti
vicine di casa, l’ironia è dissacrante durante la veglia funebre del suocero,
il pranzo con i possibili consuoceri è un tradizionale quadretto dal graffiante
effetto.
Un film sulla condizione delle donne che affronta
tematiche che continuano a essere presenti nella nostra società contemporanea.
Nella scena finale l’ingegnoso espediente scelto è un
vero e proprio canto libero sull’impegno civile e sul riscatto di chi decide di
difendere la propria dignità, guardando alle possibilità che può riservare il
futuro.
Canzone del giorno:A bocca chiusa (2013) - Daniele Silvestri
L’angoscia, il terrore per le prime immagini dell’invasione russa in Ucraina durarono sì e no tre giorni. Passato il weekend, ecco i distinguo, i “ma”, i “se”, le prime avvisaglie di stanchezza. Ecco l’ironia sui social, i meme, le battute per esorcizzare la paura, cavalcando anche le atmosfere subito surreali della tv e la farsa trash del “pluralismo”, coi conduttori a battersi il petto per avere il loro freak in studio. La guerra in Ucraina sarebbe stata (e sarà) ancora lunga, ma dopo tre giorni era diventata monotona. Iniziava a stancare. Tre-quattro giorni è il tempo di reazione, nella nostra epoca, per metabolizzare il trauma. Per addomesticare immagini raccapriccianti come quelle di questa settimana così incredibilmente orribile nella sua escalation (anche se trattandosi di Israele i distinguo qui sono iniziati subito). Poi però le atrocità diventano un ingrediente tra i tanti nel flusso disordinato di intrattenimento che scorre impetuoso sui nostri smartphone. […] Forse le immagini peggiori sono però quelle banali fotografie di famiglie felici e sorridenti, giovani mamme e papà e figli piccoli, di lì a breve sterminati a sangue freddo dentro casa loro, guardandoli negli occhi prima di sparargli addosso. Ma qui subito qualcuno ci farà notare che dovremmo commuoverci e indignarci anche per le immagini dei bombardamenti israeliani, i cadaveri dei palestinesi tra le macerie, gli stenti, la fame e poi ancora, nel vortice d’una insaziabile sete di giustizia sempre più orizzontale, democratica e universale, dovremmo farci carico anche di tutto il resto, i morti per il terremoto in Afghanistan, i migranti abbandonati in mare. Tutti. Ci vuole un hardware che forse non abbiamo. Quante immagini di morte, distruzione, catastrofi, odio disumano si possono immagazzinare? Forse lo scrolling sul nostro telefono serve anche a questo: lasciare che tutto scorra in un flusso indistinto di morte, odio, atrocità. Vedere tutto, quindi alla fine non vedere proprio nulla. Anestetizzarsi.
Andrea Minuz, Il Foglio (14/10/2023)
Canzone del giorno:Everybody's Got Their Hand Out (2001) - Michael Burks
Anche
quest’anno la meglio gioventù della borghesia meridionale si è spostata in
massa verso gli atenei del Centronord, quelli che promettono lavoro sicuro e
persino qualificato. I politecnici di Torino e Milano, la Bocconi, la
Cattolica, il San Raffaele Vita e salute, la Sapienza di Roma, Iulm, Lumsa,
Ied. Privato è meglio. Si entra più facilmente anche se si paga di più. Ma i
figli sono pezzi di cuore. Nessuno lo sa meglio di una madre o di un padre che
vivono in un Mezzogiorno travolto dalla crisi economica, demografica, dove
persino le mafie ormai recalcitrano a investire. I bravi genitori che hanno
accettato una decadenza senza fine, in peggioramento con l’imminente arrivo
dell’autonomia regionale differenziata, gettano il cuore oltre l’ostacolo ogni
mese fra tasse di iscrizione e rate di frequenza che possono arrivare a 20.140
euro l’anno, come nel caso dell’International Md program del San Raffaele,
contro un’immatricolazione per la magistrale in Bocconi a quota 16.103 euro. L’università
può non essere la spesa maggiore. A Milano, soprattutto, ma anche a Torino,
Bologna, Firenze, Padova, una stanza in condivisione a 900 euro entro i confini
municipali è un costo ancora economico. […] «È la nuova questione meridionale»,
dice Luca Bianchi, direttore generale del centro studi Svimez nato nel dicembre
1946, sei mesi dopo il referendum monarchia-repubblica stravinto dai Savoia al
Sud. «La migrazione dei talenti e delle competenze negli ultimi vent’anni ha
portato a una perdita di 300 mila laureati al Sud e il saldo dell’ultimo anno
disponibile, il 2021, è di -21 mila, con una quota in crescita. Gli emigrati
laureati aumentano anche quando aumenta l’occupazione perché sono posti a basso
valore aggiunto, nel turismo, nel commercio. Per le immatricolazioni agli
atenei del Centro-nord, invece, si parla di un quarto di iscritti che vengono
dal Sud». Dal rapporto annuale che Svimez presenterà a fine novembre,
l’Espresso può anticipare che ogni laureato vale 150 mila euro di spesa
pubblica. «Questa cifra proiettata sui ventimila che vanno via ogni anno»,
aggiunge Bianchi, «dà 3 miliardi di euro di trasferimento implicito verso Nord.
La contabilità territoriale chiesta dall’autonomia differenziata non ha senso
in un paese integrato come l’Italia e lo svantaggio distributivo patito dal
Nord è un mito». I costi di investimento pubblico, ovviamente, non includono la
spesa diretta delle famiglie sul mantenimento e, per così dire, la manifattura
del futuro laureato. A volersi divertire con le cifre, il Miur ha annunciato
che nell’anno accademico 2022-23 ci sono state 331 mila immatricolazioni (147
mila maschi, 184 mila femmine). È una cifra costante negli ultimi anni. Il 25
per cento di studenti meridionali fuori sede elaborato da Svimez si traduce in
oltre 82 mila partenze. Applicando il criterio di spesa prudenziale dei 30 mila
euro l’anno per ogni studente, il prodotto della moltiplicazione è di 2,47
miliardi di euro in fondi privati trasferiti dal Sud al Centro-nord, da
aggiungere ai 3 miliardi di spesa pubblica dei laureati. […] La macchina che ha
tenuto in piedi il boom economico del secolo scorso era fatta di contadini o
sottoproletari emigrati verso le industrie del settentrione con le loro rimesse
ad alimentare il Mezzogiorno. Oggi quel sistema è completamente saltato e nemmeno
un insegnante può permettersi la vita da fuori sede al Centronord. In un certo
senso, vige la teoria economica del trickle-down al rovescio. Al posto dei
ricchi che guadagnano sempre di più e che fanno “gocciolare” parte della
ricchezza verso gli strati inferiori della scala sociale, ci sono le famiglie
borghesi del Sud che aumentano il benessere già consistente di chi ha una
rendita di posizione nei centri urbani del Nord. E il fenomeno si allarga dai
giovani ai genitori stessi che, alla lieta novella dell’impiego dei pargoli,
ergo della possibile nuova famiglia, progettano di trasferirsi a fare i nonni
con il vantaggio di un sistema sanitario migliore. Proiettato in un futuro più
vicino, lo scenario della nuova migrazione diventa catastrofico se l’aspetto di
depauperamento patrimoniale si combina con il cosiddetto inverno demografico.
L’Istat ricorda che nell’anno di grazia 2061, al Sud vivrà il 30,7 per cento
degli ultrasettantenni e nel rapporto dello scorso 12 ottobre dedicato ai
“Giovani del Mezzogiorno” segnala un crollo nel numero di giovani in tutta
Italia. Nel periodo 2002-2022 i cittadini fra 18 e 34 anni sono scesi di 3
milioni dai 10,2 milioni di vent’anni fa. Ma in percentuale il Sud ha perso
quasi l’8 per cento in più del Centronord e questo dato è ancora ottimistico
perché gran parte degli studenti meridionali fuori sede aspetta di avere
trovato un lavoro post laurea prima di cambiare residenza. Altri decidono di
fare la triennale al Sud e prendere la magistrale al Centronord. Il totale è
che nelle città meridionali, durante la stagione accademica, è arduo vedere in
giro un ventenne. «Per i giovani del Mezzogiorno», afferma l’istituto nazionale
di statistica, «la migrazione universitaria, che si attiva soprattutto verso
gli atenei settentrionali, assume proporzioni considerevoli: coinvolge oltre un
caso su quattro all’atto dell’iscrizione, e oltre un terzo al conseguimento
della laurea. Inoltre, il fenomeno della mobilità per studi universitari nel
Mezzogiorno riguarda in misura leggermente superiore gli uomini rispetto alle
donne».
Gianfrancesco
Turano, L’Espresso (26/10/2023)
Canzone del giorno:Show Me the Way to Go Home (1977) - Emerson Lake & Palmer