Centosettanta milioni di bambini sono rotelline oscure di quella che la crisi di Suez ci ha insegnato a chiamare supply chain, ossia catena della distribuzione. Il mondo ha assistito al panico che saliva davanti alla nave gigante incagliata di traverso nel canale, un boccone nella trachea del mercato globale che si è dibattuto per riprendere fiato. Abbiamo scoperto, così, che la supply chain è la base dei nostri stili di vita: quel che mangiamo, i mobili che montiamo, i computer per smart working e dad, i pacchi che ci piovono a domicilio a 12 ore dall’ordine. Quel che non sappiamo, o che non vogliamo sapere visto che i dati ci sono, è che senza 170 milioni di bambini sfruttati nelle miniere e nei campi, la supply chain non girerebbe. Il nostro stile di vita dipende dalle supply chain, almeno dalla loro struttura attuale. Ed il lavoro minorile è una buona parte del lavoro nero e schiavo che le alimenta, risucchiando tutti i profitti verso la parte finale della catena. Fra quei 170 milioni indicati dalla Confederazione mondiale dei sindacati (Ituc) ci sono, ad esempio, i piccoli schiavi del coltan che serve a produrre i nostri smartphone. L’80% di questo minerale viene dalla Repubblica del Congo. Il coltan, che non richiede profonde gallerie, è estratto con le mani da migliaia di bambini, rapiti per questo o “volontariamente” arruolati. La supply chain parte anche da qui, al prezzo di pochi spiccioli in cambio di vite umane usa e getta. Talvolta, solo talvolta, si incaglia, come nel canale di Suez. E non c’è solo il coltan: ci sono i campi, dove il 70% dei piccoli schiavi del pianeta è impiegato per un’industria agroalimentare che sovrappone gli schemi globali del profitto alle necessità delle comunità locali. Le Nazioni Unite, che hanno fatto del 2021 l’anno della lotta al lavoro minorile, sanno che questa piaga planetaria è trasversale a tutti e 17 gli obiettivi che si è data per raggiungere la meta dello sviluppo sostenibile. Va risolta, dunque, a partire dalla «guarigione» della supply chain, che non deve necessariamente alimentarsi di lavoro sfruttato e minorile per poter esistere e crescere all’infinito per commerciare caffè, cacao, cotone. Chiara Graziani, L’Osservatore Romano (3/4/2021)
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