Per i tanti interessati agli approfondimenti di natura
economica segnaliamo due recentissimi articoli, da leggere in visione completa
cliccando qui in basso.
Il primo è l’editoriale di inizio anno del Corriere della Sera, firmato dai due
noti economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. Il titolo: Ricchezza,
equità. Troppi gli equivoci. Un esame particolareggiato alla luce della manovra
Monti e dell’incombente recessione: “Se si fossero tagliate un po' di spese
inutili, anziché limitarsi ad alzare le tasse, l'effetto sarebbe stato molto
meno grave. Ma ormai è tardi. Per arginare la recessione ora occorre
ridare fiducia a famiglie e imprese: ci vogliono riforme profonde, coraggiose e
immediate. Ma non appena si parla di riforme viene sollevata la questione
dell'equità, non sempre però in modo corretto. Che cosa significa equità? Nelle
discussioni di queste settimane sta prendendo piede una visione pericolosa: che
la ricchezza, comunque ottenuta, vada perseguita e «punita». La demonizzazione
della ricchezza. Non si deve fare di ogni erba un fascio: c'è chi è
relativamente ricco perché ha investito nella propria istruzione, spesso con
anni di sacrifici; chi ha corso rischi imprenditoriali, ha creato posti di
lavoro, è stato premiato dal mercato e paga metà del proprio reddito in tasse.
C'è invece la ricchezza creata con l'evasione fiscale, le connessioni
politiche, i favori più o meno leciti ottenuti nei corridoi dei ministeri. La
ricchezza ottenuta con i premi concessi a manager pubblici che hanno male
amministrato o addirittura corrotto le aziende loro affidate; con distorsioni
della governance di istituzioni finanziarie per cui amministratori, anche
incapaci, quando smettono di far danni, si ritirano con decine di milioni di
euro di buonuscita. La prima cosa che il governo deve fare è segnalare agli
italiani di essere conscio di questa distinzione. Altrimenti imprenditori e
capitali andranno altrove, e con essi i posti di lavoro, e addio crescita”.
In pronta risposta a queste tesi il 3 gennaio sulla prima
pagina de l’Unità, l’intervento di Ronny Mazzocchi, docente di Economia
monetaria e finanziaria presso l’Università di Torino: “La richiesta di
maggiore eguaglianza nella distribuzione di redditi viene così trasformata in un
trucco dietro cui si nasconderebbe una vera e propria demonizzazione della
ricchezza. Sarebbe quindi l’antico pregiudizio cattolico contro il denaro e
quello comunista contro le diseguaglianze ad animare l’azione di alcuni partiti
che operano nel Parlamento per modificare i disegni di legge predisposti dal
governo nel senso di una maggiore equità. In realtà sono proprio le posizioni
di Alesina e Giavazzi ad essere accecate dall’ideologia. E il fatto che tale
ideologia sia solo un rigurgito dei tempi andati rende tutto ancora più
grottesco. La loro contrarietà a qualsiasi ipotesi redistributiva si basa
infatti sulla vecchia tesi cara a Ronald Reagan del “ trickle down”, secondo
cui l’arricchimento dei già ricchi avrebbe un effetto benefico sull’intera economia,
perché la ricchezza dall’alto sgocciolerebbe sugli strati inferiori e tutti ne
trarrebbero beneficio”.
Ricchezza, equità. Troppi gli equivoci
Dal governo Monti gli
italiani si aspettano - nel 2012 - crescita,
un po' di fiducia ed equità. Le prime due sono state merci scarse nel fine anno
2011. Su cosa sia l'equità, c'è molta confusione. La crescita non c'è, anzi
siamo entrati in recessione. A inizio dicembre, Confindustria prevedeva per il
2012 una caduta del reddito dell'1,6%. Il decreto «salva Italia» ha portato la
pressione fiscale a un massimo storico: il 45%. Non sorprendentemente ne è
seguito un calo nella fiducia degli italiani. L'indicatore elaborato dalla
Commissione europea per misurare la fiducia delle famiglie (la domanda posta è
«Come vedete la condizione economica della vostra famiglia nei prossimi 12
mesi?»), che era migliorato dopo la formazione del nuovo governo, è peggiorato
in dicembre del 4,7%, ritornando al livello minimo toccato nell'inverno 2008.
Nel resto dell'area euro, nel medesimo periodo, è rimasto pressoché stabile;
negli Stati Uniti l'analogo indice è migliorato, sempre in dicembre, del 15%.
Dati che si riferiscono a singole aziende italiane indicano che nello stesso
mese le loro vendite al dettaglio sono state inferiori a un anno prima di una
cifra oscillante fra il 7 e il 10%. La conclusione è che nel 2012 rischiamo una
caduta del reddito del 2%. Se si fossero tagliate un po' di spese inutili,
anziché limitarsi ad alzare le tasse, l'effetto sarebbe stato molto meno grave.
Ma ormai è tardi.
Per arginare la
recessione ora occorre ridare
fiducia a famiglie e imprese: ci vogliono riforme profonde, coraggiose e
immediate. Ma non appena si parla di riforme viene sollevata la questione
dell'equità, non sempre però in modo corretto. Che cosa significa equità? Nelle
discussioni di queste settimane sta prendendo piede una visione pericolosa: che
la ricchezza, comunque ottenuta, vada perseguita e «punita». La demonizzazione
della ricchezza. Non si deve fare di ogni erba un fascio: c'è chi è
relativamente ricco perché ha investito nella propria istruzione, spesso con
anni di sacrifici; chi ha corso rischi imprenditoriali, ha creato posti di
lavoro, è stato premiato dal mercato e paga metà del proprio reddito in tasse.
C'è invece la ricchezza creata con l'evasione fiscale, le connessioni
politiche, i favori più o meno leciti ottenuti nei corridoi dei ministeri. La
ricchezza ottenuta con i premi concessi a manager pubblici che hanno male
amministrato o addirittura corrotto le aziende loro affidate; con distorsioni
della governance di istituzioni finanziarie per cui amministratori, anche
incapaci, quando smettono di far danni, si ritirano con decine di milioni di
euro di buonuscita. La prima cosa che il governo deve fare è segnalare agli
italiani di essere conscio di questa distinzione. Altrimenti imprenditori e
capitali andranno altrove, e con essi i posti di lavoro, e addio crescita.
Si dice che l'Italia
con il nuovo governo abbia alzato la testa.
Forse, ma il giorno di Natale la lettura di un articolo del New York Times
sull'evasione fiscale nel nostro Paese ce l'avrebbe fatta riabbassare. Ecco
un'idea quasi banale per combattere l'evasione: consentire ai cittadini di
detrarre dal reddito soggetto a tassazione una quota delle loro spese. Poter
detrarre il 30% sarebbe sufficiente per indurli a chiedere una ricevuta, anche
se ciò comporta un prezzo maggiorato dell'Iva. L'effetto netto sul gettito
sarebbe certamente positivo.
L'Italia è divisa in
due: c'è una parte del Paese che funziona e una no. Bisogna
permettere alle risorse di spostarsi verso la parte che funziona. Anche questa
è equità: non proteggere chi, non produttivo, pesa su chi lo è. Una ricerca di
alcuni economisti (Matteo Brugamelli e Roberta Zizza della Banca d'Italia e
Fabiano Schivardi dell'università di Sassari) mostra che, dopo l'introduzione
dell'euro, le piccole e medie imprese italiane si sono divise, a grandi linee,
in due gruppi. Alcune hanno investito, inventando nuovi prodotti e cercando
nuovi mercati: la loro produttività è cresciuta e così i salari dei loro
dipendenti. Altre aziende invece non hanno investito: la loro produttività è
rimasta invariata e oggi i loro prodotti non sopravvivono alla concorrenza.
Queste ultime dovrebbero chiudere, lasciando spazio alle imprese più efficienti
per crescere e così aumentare la produttività media del Paese. Ma ciò non
accade se lo Stato protegge le imprese improduttive, ad esempio utilizzando la
cassa integrazione (che spesso mantiene lavoratori legati a imprese che non
hanno futuro), anziché promuovere un moderno sistema di sussidi di
disoccupazione che aiutino i lavoratori a spostarsi da un'azienda all'altra.
Anche questo frena la crescita: sia perché la presenza di aziende vecchie e
protette rende più difficile crearne di nuove, sia perché le protezioni
costano, e a pagarle sono le imprese che guadagnano.
C'è poi l'equità fra
padri e figli, fra anziani e giovani. Il ministro Elsa Fornero è arrivata al
governo con due idee chiare, una sulle pensioni: un'altra sul lavoro. Pensava,
giustamente, che il nostro sistema previdenziale fosse stato reso sostenibile
dalla riforma Dini: bisognava solo accelerarla. In pochi giorni lo ha fatto e
oggi le pensioni italiane, pur non perfette, sono più sostenibili che in molti
Paesi europei.
Anche sul mercato del
lavoro Fornero ha (o almeno
aveva) idee chiare: è necessario un contratto unico che accolga un giovane al
primo impiego e poi lo accompagni nella sua vita lavorativa. Un contratto che
si differenzi solo per quanto un'impresa deve pagare se decide di licenziare un
dipendente: nulla i primi mesi e un ammontare via via crescente col trascorrere
del tempo e del rapporto di lavoro. Vi sono diversi modi per disegnare un
simile contratto, alcuni proposti da Olivier Blanchard, il capo economista del
Fondo monetario internazionale, altri dal senatore Pietro Ichino. In entrambe
le proposte si tratta di contratti a tempo indeterminato per tutti, ma
rescindibili, se necessario, per motivi economici dell'impresa. Si può
prevedere un periodo di apprendistato alla tedesca, ma il punto cruciale è
eliminare il precariato e far sì che i giovani non si sentano più dei paria,
cui viene negato un mutuo per acquistare una casa e così il sogno di formare
una famiglia. All'interno di un'azienda i lavoratori possono distinguersi per
la loro anzianità, ma non fra chi è fortunato e ha un contratto a tempo
indeterminato e chi quella fortuna non ha avuto. Insomma, ai giovani il governo
deve offrire un futuro più certo e ridare loro un po' di fiducia. Ma i giovani
non si devono aspettare il posto fisso nel senso dell'illicenziabilità, del
lavoro a vita nella stessa impresa.
La sostituzione della
cassa integrazione con un moderno sistema
di sussidi temporanei è il complemento necessario del contratto unico e
permetterebbe di usare il periodo di disoccupazione per investire nella propria
formazione. Il rifiuto da parte dei sindacati di dialogare su questi argomenti
dimostra, ancora una volta, che a queste organizzazioni i giovani e l'equità
intergenerazionale non interessano. L'ottima Elsa Fornero non deve arrendersi
ai sindacati. Il Paese le deve già molto, le chiediamo ancora più coraggio e
Mario Monti le deve tutto il suo appoggio.
Si parla poi di equità con riferimento al
fatto che i salari in Italia sono più bassi che altrove. Secondo dati
dell'Eurostat, a parità di caratteristiche individuali, le retribuzioni mensili
nette italiane nel settore privato risultano in media inferiori di circa il 10
per cento a quelle tedesche, del 20 a quelle britanniche e del 25 a quelle
francesi. Non c'è da sorprendersi: i salari non sono «una variabile
indipendente» per citare una frase storica (in seguito per la verità rinnegata)
di Luciano Lama, leader della Cgil negli anni 70. I salari dipendono dalla
produttività, che in Italia è cresciuta molto meno che negli altri Paesi
europei: non solo per colpa dei sindacati, ma anche di quegli imprenditori che
si sono illusi che si potesse vivere di rendita.
Il primo grafico (guarda) mostra come la
produttività del lavoro in Italia sia stagnante almeno dal 2000, mentre nella
la media dei Paesi dell'Euro cresceva, specialmente in Germania. Non solo la
produttività in Italia cresce poco, ma i salari poi non la seguono
correttamente, premiando troppo l'anzianità. Come si vede nel secondo grafico (guarda), i salari medi
italiani crescono con l'età mentre, ad esempio, in Gran Bretagna, raggiungono
un apice in corrispondenza delle età più produttive e calano negli anni
successivi. Insomma, in Italia conta soprattutto (troppo) l'anzianità, in tutti
i campi. Per correggere questa situazione ci vuole un accordo costruito su tre
punti: le imprese offrono un contratto unico e rinunciano ai sussidi pubblici;
lo Stato riduce le tasse sul lavoro, finanziando gli sgravi con i tagli ai
sussidi alle imprese; i sindacati accettano una gestione più flessibile del
lavoro. Il presidente di Confindustria dice che i sussidi non bastano perché
sono solo 2,7 miliardi l'anno. Se ha ragione, a chi vanno i rimanenti 27,3
miliardi di «sussidi alle imprese» che appaiono nel bilancio dello Stato?
Probabilmente a imprese che li meritano ancor meno degli associati a
Confindustria. Se si avesse il coraggio di tagliarli vi sarebbe lo spazio per
finanziare sia una riduzione molto significativa del cuneo fiscale sia il
passaggio dalla cassa integrazione a un moderno sistema di sussidi.
Equità e crescita si
combinerebbero anche privatizzando
imprese pubbliche, dove talvolta - come nel caso di Finmeccanica, un tempo additata
quale gioiello del sistema pubblico - abbiamo appreso che dilagava la
corruzione. Spiegavamo in un precedente articolo che se la Borsa è depressa, lo
sono anche i prezzi dei Btp: quando mai si ripresenterà l'occasione di ritirare
a 70 centesimi titoli che a scadenza dovremmo ripagare 100? Privatizzare è il
modo corretto per ridurre il debito, come fece il governo Ciampi negli anni 90.
Ci preoccupa invece leggere che tornano di moda proposte di ridurre il debito
in modo più o meno forzoso, inducendo le banche ad acquistare titoli pubblici
garantiti dal patrimonio dello Stato. Innanzitutto perché se il patrimonio
garantisce solo alcuni titoli, il prezzo degli altri, quelli non garantiti,
evidentemente cadrebbe, quindi non si vede che beneficio ne venga allo Stato.
Ma soprattutto queste proposte sembrano ignorare che le nostre banche hanno
bisogno urgente di capitale fresco. Altrimenti, come è accaduto il mese scorso,
la liquidità che ricevono dalla Banca centrale europea, o la impiegano per
acquistare Bot semestrali o la ridepositano a Francoforte. Comunque, non
prestano denaro alle imprese perché non hanno il capitale necessario per farlo.
Le fondazioni, che sono i loro maggiori azionisti, non hanno più risorse per
ricapitalizzare le banche: quindi la condizione per far riprendere il credito
alle imprese è attirare nuovi azionisti privati. Pensate che ci sarebbero se le
banche venissero usate per acquisti forzosi di titoli pubblici? L'ora delle
alchimie finanziarie è finita. L'Italia si salva solo se l'economia reale
riparte.
Infine l'università. Caro presidente del
Consiglio, rilegga un libro a lei caro, Prediche Inutili di Luigi Einaudi, e
inserisca nella legge sulle liberalizzazioni cui sta lavorando l'abolizione del
valore legale della laurea: un provvedimento, come spiegava Einaudi, che
aumenterebbe competizione e merito nei nostri atenei.
Agenda Tafazzi
Fra le regole non scritte del cinema c’è quella secondo cui
il seguito di un film è sempre peggiore dell’originale. L’articolo di Alberto
Alesina e Francesco Giavazzi apparso ieri sul Corriere della Sera non fa
eccezione. Se ci aggiungiamo che il primo capitolo - la cosiddetta “Agenda
Giavazzi” di sei anni fa - non è stata certo un’opera riuscita, ecco il modesto
risultato.
Gli ingredienti sono quelli di sempre e il ricettario per uscire dalla crisi non sembra discostarsi molto dalle proposte che andavano di moda nei ruggenti anni Novanta. In tutto l’articolo domina ancora l’impostazione che ha modellato l’intero modo di pensare del decennio scorso e che ha avuto devastanti conseguenze sul terreno delle scelte politiche e sociali. Come già accaduto in passato, è poi evidente il tentativo di etichettare come ideologiche e moralistiche le posizioni politiche poco gradite.
La richiesta di maggiore eguaglianza nella distribuzione di redditi viene così trasformata in un trucco dietro cui si nasconderebbe una vera e propria demonizzazione della ricchezza. Sarebbe quindi l’antico pregiudizio cattolico contro il denaro e quello comunista contro le diseguaglianze ad animare l’azione di alcuni partiti che operano nel Parlamento per modificare i disegni di legge predisposti dal governo nel senso di una maggiore equità. In realtà sono proprio le posizioni di Alesina e Giavazzi ad essere accecate dall’ideologia. E il fatto che tale ideologia sia solo un rigurgito dei tempi andati rende tutto ancora più grottesco. La loro contrarietà a qualsiasi ipotesi redistributiva si basa infatti sulla vecchia tesi cara a Ronald Reagan del “ trickle down”, secondo cui l’arricchimento dei già ricchi avrebbe un effetto benefico sull’intera economia, perché la ricchezza dall’alto sgocciolerebbe sugli strati inferiori e tutti ne trarrebbero beneficio.
Una posizione diametralmente opposta a quella sostenuta dallo stesso Fondo monetario internazionale che, in una recente pubblicazione, ha mostrato come l’eguaglianza distributiva non solo non determinerebbe affatto un freno agli investimenti, ma addirittura costituirebbe un ingrediente fondamentale per promuovere la crescita economica. Addirittura stucchevole, poi, è l’idea di procedere ad una rapida privatizzazione di quel che resta dell’industria pubblica nazionale per ridurre il debito pubblico. Si tratta innanzitutto di una ricetta bocciata nei mesi scorsi anche da Daniel Gros, direttore del prestigioso Center of european policy studies: infatti, cedere sul mercato un’azienda pubblica avrebbe forse qualche vantaggio immediato in termini di incassi derivanti dalla vendita, ma verrebbe più che compensato dalle perdite future per i mancati profitti che sarebbero affluiti alle casse dello Stato.
Nel ragionamento puramente ragioneristico di Alesina e Giavazzi manca poi qualsiasi riferimento alla centralità strategica, all’interesse nazionale e allo sviluppo economico del Paese. Svendere sul mercato una grande azienda pubblica che opera in settori importanti come energia, telecomunicazioni e trasporti non significa solamente impoverire il patrimonio industriale del Paese, ma anche ridurre la possibilità di determinare in futuro il proprio sentiero di sviluppo e di partecipare con la necessaria autorevolezza alle riunioni in cui vengono negoziati gli accordi internazionali in questi settori cruciali.
Non meno improbabili, infine, sono le posizioni sulle riforme del mercato del lavoro. L’idea che la disoccupazione giovanile e la precarietà siano da imputare alla presenza di troppe garanzie per i lavoratori adulti è uno dei tanti artifici retorici con cui da mesi si sta cercando di indebolire il sistema generale di tutele dei lavoratori. Ma si tratta di un inganno: non solo numerose ricerche hanno dimostrato come aumentare la flessibilità in uscita non abbia alcun effetto sul livello di occupazione di lungo periodo, ma questa riforma finirebbe per indebolire ulteriormente il potere contrattuale dei lavoratori, con effetti nefasti sui loro già modesti salari.
Proprio l’Ocse ha mostrato come al drastico aumento della diseguaglianza fra i redditi, osservato nell’ultimo trentennio, abbia contribuito in misura determinante la modifica dei rapporti di forza che stanno alla base della distribuzione primaria del reddito fra capitale e lavoro. Le radici del peggioramento stanno quindi nel mondo del lavoro e non si capisce davvero come un ulteriore indebolimento delle tutele possa contribuire a restringere la forbice fra ricchi e poveri e a ridurre le diseguaglianze. Un problema che non rientra fra le preoccupazioni di Alesina e Giavazzi, ma che dovrebbe invece interessare chi non vuole avvelenare del tutto un Paese già malato.
Gli ingredienti sono quelli di sempre e il ricettario per uscire dalla crisi non sembra discostarsi molto dalle proposte che andavano di moda nei ruggenti anni Novanta. In tutto l’articolo domina ancora l’impostazione che ha modellato l’intero modo di pensare del decennio scorso e che ha avuto devastanti conseguenze sul terreno delle scelte politiche e sociali. Come già accaduto in passato, è poi evidente il tentativo di etichettare come ideologiche e moralistiche le posizioni politiche poco gradite.
La richiesta di maggiore eguaglianza nella distribuzione di redditi viene così trasformata in un trucco dietro cui si nasconderebbe una vera e propria demonizzazione della ricchezza. Sarebbe quindi l’antico pregiudizio cattolico contro il denaro e quello comunista contro le diseguaglianze ad animare l’azione di alcuni partiti che operano nel Parlamento per modificare i disegni di legge predisposti dal governo nel senso di una maggiore equità. In realtà sono proprio le posizioni di Alesina e Giavazzi ad essere accecate dall’ideologia. E il fatto che tale ideologia sia solo un rigurgito dei tempi andati rende tutto ancora più grottesco. La loro contrarietà a qualsiasi ipotesi redistributiva si basa infatti sulla vecchia tesi cara a Ronald Reagan del “ trickle down”, secondo cui l’arricchimento dei già ricchi avrebbe un effetto benefico sull’intera economia, perché la ricchezza dall’alto sgocciolerebbe sugli strati inferiori e tutti ne trarrebbero beneficio.
Una posizione diametralmente opposta a quella sostenuta dallo stesso Fondo monetario internazionale che, in una recente pubblicazione, ha mostrato come l’eguaglianza distributiva non solo non determinerebbe affatto un freno agli investimenti, ma addirittura costituirebbe un ingrediente fondamentale per promuovere la crescita economica. Addirittura stucchevole, poi, è l’idea di procedere ad una rapida privatizzazione di quel che resta dell’industria pubblica nazionale per ridurre il debito pubblico. Si tratta innanzitutto di una ricetta bocciata nei mesi scorsi anche da Daniel Gros, direttore del prestigioso Center of european policy studies: infatti, cedere sul mercato un’azienda pubblica avrebbe forse qualche vantaggio immediato in termini di incassi derivanti dalla vendita, ma verrebbe più che compensato dalle perdite future per i mancati profitti che sarebbero affluiti alle casse dello Stato.
Nel ragionamento puramente ragioneristico di Alesina e Giavazzi manca poi qualsiasi riferimento alla centralità strategica, all’interesse nazionale e allo sviluppo economico del Paese. Svendere sul mercato una grande azienda pubblica che opera in settori importanti come energia, telecomunicazioni e trasporti non significa solamente impoverire il patrimonio industriale del Paese, ma anche ridurre la possibilità di determinare in futuro il proprio sentiero di sviluppo e di partecipare con la necessaria autorevolezza alle riunioni in cui vengono negoziati gli accordi internazionali in questi settori cruciali.
Non meno improbabili, infine, sono le posizioni sulle riforme del mercato del lavoro. L’idea che la disoccupazione giovanile e la precarietà siano da imputare alla presenza di troppe garanzie per i lavoratori adulti è uno dei tanti artifici retorici con cui da mesi si sta cercando di indebolire il sistema generale di tutele dei lavoratori. Ma si tratta di un inganno: non solo numerose ricerche hanno dimostrato come aumentare la flessibilità in uscita non abbia alcun effetto sul livello di occupazione di lungo periodo, ma questa riforma finirebbe per indebolire ulteriormente il potere contrattuale dei lavoratori, con effetti nefasti sui loro già modesti salari.
Proprio l’Ocse ha mostrato come al drastico aumento della diseguaglianza fra i redditi, osservato nell’ultimo trentennio, abbia contribuito in misura determinante la modifica dei rapporti di forza che stanno alla base della distribuzione primaria del reddito fra capitale e lavoro. Le radici del peggioramento stanno quindi nel mondo del lavoro e non si capisce davvero come un ulteriore indebolimento delle tutele possa contribuire a restringere la forbice fra ricchi e poveri e a ridurre le diseguaglianze. Un problema che non rientra fra le preoccupazioni di Alesina e Giavazzi, ma che dovrebbe invece interessare chi non vuole avvelenare del tutto un Paese già malato.
Ronny
Mazzocchi. l'Unità del 3 gennaio 2011