Penso che la sinistra e tutti i sostenitori della causa palestinese, abbandonando ogni complesso di inferiorità, debbano dire immediatamente che la tregua in atto tra Israele e Palestina è cosa buona e giusta e che — per realizzarla — il ruolo di Donald Trump è stato determinante. È un dovere elementare verso la verità storica, ma non solo: è anche un'importante questione morale. La guerra, ovvero la più tragica invenzione dell'umanità, esige intelligenza e coscienza. E comporta un processo, faticoso e doloroso, di assunzione di responsabilità. Se, dunque, l'azione di Trump per imporre il cessate il fuoco è stata decisiva, enormi restano le sue responsabilità: nell'aver consentito che l'azione efferata di Israele proseguisse fino a oggi e persino oltre oggi; e nell'aver sostenuto incondizionatamente i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità commessi dall'Idf; e nell'aver promosso, sul piano internazionale, una militarizzazione delle relazioni tra i popoli, esaltandone la componente bellica, come mai in questo scorcio di secolo: fino al punto di mutare il nome del Dipartimento "della difesa", in quello "della guerra". Ma proprio perché questa è una giornata storica e un'occasione di gioia, oltre che di lutto, di salvezza e non solo di pianto, è forse utile guardare più a fondo dentro le cose. Nessuno può sapere come la situazione, in Palestina, evolverà osi degraderà: si può essere solo felici delle vite risparmiate e delle sofferenze alleviate in questo lasso di tempo presente, ma sulla lunga gittata è difficile essere ottimisti. È possibile che la prospettiva di due popoli e due Stati e quella, ancora più auspicabile, di uno Stato federale per israeliani e palestinesi riprenda, magari lentissimamente, ma riprenda. Eppure, il fuoco che brucia nel sottosuolo di quella terra è tutt'altro che spento. […] La guerra è il momento in cui la competizione e la rivalità tra gli esseri umani perdono ogni capacità di mediazione e di compromesso, rinunciano alla politica e alla diplomazia, per farsi violenza assoluta. È il momento in cui l'avversario diventa nemico e l'oggetto della contesa è l'annientamento dell'altro. La sua, alla lettera, cancellazione. L'odio trova la sua forma perfetta e il suo perfetto bersaglio. La crudeltà di quel conflitto si fa tanto più acuta quanto più si manifesta come guerra fratricida. E, allora, pochi sembrano ricordare che ebrei e arabi sono entrambi popoli semiti, appartenenti al medesimo ceppo linguistico. E che, come scrivono alcuni autorevoli storici israeliani, quell'eterno scontro tra gli uni e gli altri può essere interpretato come una guerra civile prolungata. Tanto più che, come in tutti i conflitti all'ultimo sangue, la posta in gioco è il controllo del territorio — un territorio assai scarso — e la demografia è destinata a giocare un ruolo cruciale. E già si parla di "guerra civile" feroce ma incruenta all'interno di Israele e di guerra civile feroce e cruenta in Palestina, dove i miliziani di Hamas continuano a fare strage di oppositori. […] L'uomo contemporaneo, dopo Dostoevslujj e dopo Nietzsche, non può non avere una concezione tragica dell'esistenza. Non può immaginare un mondo pacificato e in armonia, anche se è assai prezioso il fatto che tantissimi lo desiderino e operino per approssimarlo. Dubito che l'umanità possa mettere al bando l'odio, ma la mobilitazione collettiva, il dolore comune, l'ira dei miti, le flottiglie e quella cara vecchia manifestazione di massa, che tanto ha fatto contro l'ingiustizia, e che oggi si presenta nelle piazze europee e in quelle di Tel Aviv, continuano a rappresentare «la seconda superpotenza mondiale».
Luigi Manconi, Repubblica (14/10/2025)
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