Il periodo storico successivo alle tragedie della prima parte del XX secolo ci aveva fatto credere che l’umanità si fosse finalmente emancipata dalla necessità di ricercare nel volto dell’altro un nemico da combattere. Che il pluralismo fosse ormai un fatto acquisito. Che chi è diverso – per cultura, genere, lingua, religione, posizione sociale, visione del mondo – potesse essere parte, a pieno titolo, della vita comune. I fatti di questi ultimi anni e giorni (dopo l’Ucraina e Gaza, l’escalation Israele-Iran, quello che sta accadendo in California e in Irlanda) ci costringono a prendere atto che le cose sono più complicate. Non stiamo andando verso un mondo più capace di inclusione, comprensione e coesistenza. Al contrario, si assiste a un lento arretramento del riconoscimento dell’altro. L’alterità, lungi dall’essere accolta, viene sempre più percepita come una minaccia. [...] Viviamo in un paradigma culturale che ci induce a difendere a ogni costo la nostra/mia zolla di benessere, potere o identità. Ogni cambiamento, ogni segnale di trasformazione, ogni imprevisto viene percepito come una minaccia. Al punto che si vanno perdendo persino le competenze necessarie per gestire la relazione complessa con l’altro concreto. Stiamo scivolando lungo un piano inclinato, con un esito incerto. Tuttavia, non è troppo tardi per invertire la rotta, a condizione di prendere coscienza della situazione prima che peggiori ulteriormente, prima che la diffidenza e l’autoassoluzione rendano irreversibile il nostro isolamento. Uscire da questa deriva richiede di riconoscere che l’altro non rappresenta un ostacolo al nostro benessere, ma una condizione imprescindibile della nostra umanità. [...] È pertanto necessario impegnarsi attivamente per promuovere una nuova cultura della coesistenza. Non si tratta di una semplice tolleranza, che preserva lo status quo mantenendo le distanze, bensì di un’ospitalità reciproca, capace di generare legami, progetti condivisi e nuove narrazioni. Questo principio si applica tanto alle comunità locali quanto alle istituzioni globali, alle famiglie, alle scuole, alle imprese, alla politica e alle religioni. In una società in cui l’alterità diventa un problema, la cura inizia con il disarmo delle pretese assolute. È fondamentale riconoscere che il mondo non ci appartiene, ma ci è stato affidato in comune, che la nostra identità è intrinsecamente relazionale e che la libertà non consiste nel fare ciò che si vuole, ma nel saper condividere spazi, tempi, risorse e aspirazioni con gli altri.In definitiva, si tratta di scegliere che tipo di mondo vogliamo abitare: se rimanere intrappolati nella logica della zolla, ciascuno arroccato nel proprio recinto, facendo piazza pulita di tutto ciò che è fuori dai suoi schemi o se siamo disposti a costruire una nuova ecologia relazionale. Solo riconoscendo il volto dell’altro possiamo ritrovare anche il nostro.
Mauro Magatti, Avvenire (15/6/2025)
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