Professor Sunstein, partiamo dai Beatles: perché le loro canzoni non bastano a spiegarne la fama planetaria?
«Al di là della
loro creatività indiscussa, i Beatles ebbero diversi colpi
di fortuna. Ad esempio accettare come loro manager il vulcanico
Brian Epstein, proprietario di un negozio di dischi senza esperienza
nell’industria musicale ma cocciuto e geniale, che si offrì a loro
dopo averli sentiti in un famoso club a Liverpool; e poi l’incontro
fatidico di Epstein con George Martin, che sarà il loro produttore e
pubblicherà – quando nessun’altra casa discografica tampinata da
Epstein mostrava interesse per la band – il primo singolo Love me do.
All’inizio nessuno prendeva sul serio i Beatles, anche per il buffo
nome del gruppo. Epstein mise in atto tutta una serie di
strategie promozionali più o meno ortodosse: c’è chi dice che acquistò
lui stesso 10 mila copie del disco per farlo entrare in classifica.
Riuscì a farli esibire in una trasmissione che andò in onda durante
quella che in Inghilterra fu la nevicata più intensa del secolo,
con quasi tutta la popolazione chiusa in casa davanti alla tv…».
Insomma tendiamo a sottovalutare il peso
del caso?
«Un esempio
eclatante è quello di Muhammad Alì: da ragazzo gli rubarono la
bicicletta, e un poliziotto a cui parlò del furto – dicendogli di
voler dare una lezioncina al ladro – gli rispose: «Se proprio vuoi
farlo, prima prendi qualche lezione di boxe». Il resto è Storia. Solo
pochi, tra i grandi, si rendono conto del peso delle circostanze. Il
Presidente Obama un giorno mi disse: “I Ceo pensano che io li
odi. Non è così: è solo che so che, per quanto straordinari, sono
stati fortunati. È anche il mio caso: spero di fare un buon lavoro,
ma ho avuto un sacco di fortuna”. Era conscio di essersi candidato in
un momento in cui l’America voleva un presidente nero».
Da un’intervista di Giuliano Aluffi a Cass R. Sunstein, autore del saggio “Come diventare famosi” (il Venerdì di Repubblica – 20/6/2025)