D’accordo, d’accordo. Lunedì andrò a votare con l’entusiasmo di chi va dal dentista. Andrò tra l’ora di pranzo e il termine ultimo delle 15. E lo farò, perché credo nella democrazia diretta, nonostante tutto e tutti, promotori e dissuasori. Mi sono nutrito di campagne referendarie nei miei anni di formazione politica, dalla raccolta di firme, alla pulizia dei moduli, alla consegna in Cassazione. Raccolsi firme anche quando non potevo ancora votare, per i referendum sulla giustizia e ambientali del 1987. Ma questi cinque referendum dell’8-9 giugno mi hanno fatto sentire come un critico musicale costretto ad ascoltare l’ennesimo talent show. Tecnicamente perfetti (almeno così ha stabilito, nella sua giurisprudenza altalenante, la Corte Costituzionale), giuridicamente ineccepibili, politicamente… svuotati. E non riesco a togliermi di dosso l’idea che i promotori avessero preso lo strumento più potente della democrazia (se usato in maniera corretta) e l’avessero usato per aggiustare il rubinetto che perde. Anche questo ha reso difficile il confronto sui temi, soprattutto quelli del lavoro. […] Questi cinque quesiti soffrono della sindrome del referendum tecnico: sono giusti, necessari, ma non emozionano. Sono come l’ennesimo disco dei Rolling Stones ottantenni: ben fatto, ineccepibile, ma non ti cambia la vita. Il referendum dovrebbe essere il momento in cui il popolo prende in mano il destino del paese. Questi sembrano più un esame di diritto del lavoro a domande multiple. L’ironia è che io, che conosco tutto sui referendum, che ho seguito la raccolta firme, che ho partecipato ai dibattiti, sarò quello che esce dal seggio meno convinto. Forse è colpa mia, forse ho idealizzato troppo questo strumento. Forse pretendo troppo dalla democrazia diretta. Ma quando vedo persone che votano SÌ a tutto perché “tanto il governo deve cadere” o NO a tutto perché “non si cambia niente”, mi viene da pensare che abbiamo banalizzato qualcosa di prezioso. Il referendum è come il vinile: bellissimo, ma va usato per la musica giusta. Non puoi mettere la trap su un giradischi vintage e aspettarti che funzioni. E comunque, anche con la musica giusta, non ti restituirà mai i tuoi vent’anni. Questi referendum del 2025 sono (forse) tecnicamente perfetti ma emotivamente vuoti. Servono a correggere errori del passato, non a immaginare il futuro. Sono chirurgia, non rivoluzione. Voterò SÌ a tutto, perché comunque rappresentano un miglioramento rispetto all’esistente. Ma lo farò senza entusiasmo, come si fa la spesa al supermercato: necessario, ma non esaltante. Il referendum rimane uno strumento magnifico della democrazia. Ma forse dovremmo usarlo con più parsimonia e più ambizione. Meno micro-ingegneria giuridica, più grandi scelte di civiltà. Oppure dovremmo accettare che anche i referendum sono diventati normali, quotidiani, tecnici. Parte del gioco democratico ordinario invece che momenti straordinari di partecipazione popolare. E, visto il livello del gioco democratico ordinario del nostro paese, la crisi del referendum è solo un’altra faccia della crisi generale del paese. Ma non mi convincerete mai, che questa trasformazione è un segno di maturità democratica, quando persino gli strumenti più nobili diventano routine. A me la routine non è mai piaciuta. Preferivo quando i referendum facevano paura al potere.
Marco Di Salvo, glistatigenerali.com (7/6/2025)
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