Non chiedere agli altri cosa pensano di te. Potrebbero dirti la verità.
Roberto Gervaso (1937 - 2020)
Canzone del giorno: Man of Considerable Taste (1995) - Billy Boy Arnold
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"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".
Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)
Roberto Gervaso (1937 - 2020)
Linea di non ritorno. Un anno dopo l’alba del 24 febbraio 2022, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov avverte che abbiamo raggiunto «la linea di non ritorno». Abbiamo — noi, al plurale — perché il Cremlino considera ormai la guerra in Ucraina uno scontro, forse proprio quello definitivo, con l’Occidente. Il confine fisico e metafisico che, una volta varcato, ci porterebbe all’apocalisse riguarda quindi non soltanto Volodymyr Zelensky e i suoi, ma l’intero schieramento “predatore” che — secondo la propaganda di Mosca — minaccia di incenerire in un corto circuito finale il mondo russo, i suoi interessi vitali e valori patriottici, la cultura stessa dei piccoli e grandi padri. Per questo Vladimir Putin proclama di non potersi e volersi fermare. Mobilita truppe e mezzi, non esclude l’apertura di un fronte settentrionale dalla Bielorussia, progetta un’altra offensiva che dovrebbe ristabilire il primato di Golia su Davide, data la sproporzione delle forze - demografiche, militari - in campo. […] Può mai Putin, che è causa della catastrofe, proporsi come il broker della riduzione del danno che ha provocato? Sarà mai affidabile, credibile, conseguente? È lo stesso schema di gioco internazionale che sta tentando Assad, cavalcando la disperazione assoluta seguita al terremoto in Siria, per recuperare centralità dopo 12 anni di bombardamenti e crimini contro l’umanità - l’umanità del suo stesso popolo, per altro. La risposta, 365 giorni dopo, è che fermarsi — se non indietreggiare — sarebbe più pericoloso e doloroso di non fermarsi. Torniamo allora oggi alle immagini che ci colpirono quando tutto cominciò e non eravamo assuefatti. A quella dei giovani genitori di Mariupol che corrono al pronto soccorso con in braccio il loro neonato, ferito a morte. A quella della madre con al seguito figlia e figlio adolescenti, con trolley e trasportino dei cani, tutti riversi lungo il marciapiede sotto il ponte bombardato a Irpin. E ancora a quella del padre che, a una fermata del bus di Kharkiv, stringe la mano del suo ragazzo che sbuca dal telo rosso: lo sguardo nel vuoto, vorrebbe restare lì, inginocchiato a terra, aggrappato per sempre all’ultimo contatto, pelle con pelle.Torniamo a un anno fa anche se siamo stanchi dell’orrore. O, meglio, proprio perché siamo stanchi e vorremmo scivolare in un’indifferenza collettiva che ci faccia da cuscinetto geopolitico rispetto al fronte orientale, da cuscino di piume e d’oblio quando arriviamo a casa la sera già provati dalle nostre giornate.
Charles Baudelaire, Le balcon - Le Fleurs du mal (1857)
Festival è l’antico termine francese che indicava un evento sacro e popolare, arricchito da musica e danze. Nasceva dal bisogno di interrompere la fatica del lavoro quotidiano e condividerne i frutti. Dettata dal calendario liturgico e dai ritmi stagionali di terra e cielo, la festa dava senso agli altri giorni: riposare e gioire insieme del lavoro fatto, con musica e danza che sono i simboli umani della libertà dalle necessità dei giorni feriali. I Greci interrompevano anche le guerre per i loro festival. La città pagava il biglietto a tutti, anche ai più poveri, perché potessero partecipare a ciò che permetteva di riposare e di esistere come comunità. La polis, città in greco, da cui «politica», non era un contenitore di corpi, ma un progetto di vita da creare insieme: un’armonia che tutti erano chiamati a realizzare, per andare oltre il mero stato di necessità e vincere un po’ la morte. Il tutto si è poi trasferito nelle feste liturgiche cristiane, qualcosa rimane nei nostri sabati del villaggio, ma nel «villaggio globale» tutto questo accade in tv. Nella cultura secolare e nella società di massa ciò che crea comunità si è trasferito sullo schermo. Il Festival della canzone è infatti un’occasione (un’altra è la Nazionale di calcio) per riposare e rifondarsi come comunità. Ci basta? Funziona? Per l’evento, famiglie, amici e parenti si radunano in soggiorno e, se non è possibile, in chat. Si commenta, si danno voti, si demolisce, si osanna, in perfetto stile tribale social. Ma da dove viene questo potere unificante? È un rito culturale: riscopriamo la nostra lingua che, con le sue vocali finali e il suo ritmo, è fatta per il canto. È un rito sociale: riesce a unire, come la Nazionale, tutte le generazioni, da Mattarella a Madame. [...] Comunque sia noi di Sanremo abbiamo bisogno perché è San Remo: se manca il patrono un Paese non esiste, manca ciò che unisce gli uomini, il sacro, cioè, fuor di metafora, ciò che riceviamo dal passato e con cui dobbiamo fare i conti per rinnovarci. Che cosa fonda la nostra comunità e ci fa appartenere a questo Paese tanto da volerlo custodire e far crescere insieme? In un tempo in cui, individualisticamente slegati, ci sembra di non appartenere a nulla e nessuno, abbiamo ancor più bisogno di simboli (parola che significa «unire ciò che è separato»). Quali sono i nostri? Lo sport e le canzoni, in tv. È sempre più difficile trovare unità e gioia negli spazi dove la vita si svolge ogni giorno (città, scuola, cultura...) e non appartenere soltanto a supermercati, piattaforme streaming o social. Sarebbe bello fare città, civitas, comunità e civiltà, in posti in cui ci si trattiene e non solo ci si intrattiene, in cui si costruisce e non solo si consuma. Ma se ci uniamo per qualche sera, disposti a tardare davanti al teleschermo pur lavorando l’indomani, è perché ne abbiamo bisogno, o almeno ne ha avuto bisogno un italiano su sei, gli altri cinque cercano altrove. Ma, quando lo spettacolo è finito, quell’italiano aveva più vita o più sonno? Torna a lavorare, come dice amaramente la canzone dei miei conterranei, «per non stare» con chi ama, o invece ha ricevuto energie nuove per amare meglio chi ha accanto? Abbiamo fatto comunità o solo ascolti? Comunque sia ci aggrappiamo ancora all’arte per sapere se c’è un altro mondo, bello e unito, a cui appartenere, un mondo ancora da fare e in cui si può ancora cantare insieme per spostare la morte più in là.
Anaïs Nin (1903 - 1977), Diario IV - Gennaio 1946
Jean-Francois Regnard, Il giocatore (1696)
L’ambasciatore siriano all’Onu ha detto che tutti gli aiuti internazionali devono passare per Damasco [compresi quelli destinati alle regioni del nord-ovest, un’enclave isolata in guerra col governo di Damasco]. Ma nessuno si fida. In questi anni il regime si è approfittato degli aiuti internazionali e ha creato un sistema per scremare una percentuale e trattenerla a proprio beneficio. [...] Inoltre c’è il timore che Damasco, come ha fatto in passato, usi il controllo sulla distribuzione come un’arma politica contro ogni singola città ribelle: obbedisci e ti portiamo cibo e medicinali [altrimenti] nulla. Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stato americano, ha detto che sarebbe il colmo affidare gli aiuti americani per i civili siriani a un regime «che da anni massacra i siriani, li gassa ed è responsabile per la maggior parte delle loro sofferenze».
Daniele Raineri, la Repubblica (9/2/2023)
Aleppo, Idlib: un coccio di Siria dove da un decennio i morti sono così impastati con le macerie che è spesso inutile separarli, formano un unico strato, alzano la terra. Il braciere della guerra civile, poi il terremoto: per chi ci vive e ci muore che differenza fa? I palazzi smottati a valanga, le strade spianate, i minateti fracassati come immensi grissini. La falce della Natura rende forse più facile rispondere alla domanda: perché? Cinquemila morti si aggiungono alle decine di migliaia della guerra, delle battaglie urbane, degli agguati, dei regolamenti di conti, delle pulizie fanatiche. I siriani, arabi curdi sciiti sunniti cristiani, sono sospesi dentro un dramma che replica infinitamente se stesso. Volgono le stagioni, i cieli mutano, tutto appartiene qui a un muoversi terribile, inarrestabile, decretato. Spero che la feroce spallata della terra abbia fatto crollare anche le gigantografie del presidente Bashar e gli striscioni con le parole d’ordine jihadiste. Nelle immagini del sisma ti cali sentendo il gelo. Ti addentri solitario in un abisso dimenticato, sì dimenticato da anni, mentre la televisione dissipa squarci e si apre incredibile, inumana la polemica se sia opportuno, politicamente, aiutare. Dio mio! Eccola qua la diplomazia serpentina, la politica omicida che spunta subito vispa dalle macerie: le sanzioni necessarie, avere a che fare con il dittatore subdolo e pronto a tutto per consolidare la vittoria, la partita aperta tra Occidente e i suoi orribili alleati, Russia e Iran che, oggi più di ieri, stanno dall’altra parte della Cortina di ferro planetaria. Tutto vero, politicamente pesante anche in questo alveare di drammi. Ma la retrospettiva del dolore non riesci più a togliertela di dosso, e neanche vuoi , di fronte a un popolo, di nuovo, per colpa della Natura e degli uomini, con le spalle al muro. La geopolitica degli aiuti umanitari: definiamola così, e suona come una bestemmia. E’ più sudicia della guerra perché non ne ha neppure le mediocri e pretestuose scuse, eredità storiche, territoriali incongruenze, conflitti ‘’giusti’’ o sbandati come tali. Eppure la guerra degli aiuti funziona da sempre, con micidiale precisione. Dove si muore di catastrofi naturali o di miseria o di ladrocinio dei potenti controllare il sacco di farina, il pacco di medicine, il buldozer per scavare le macerie, le tende per trovar riparo sono arma: potente, decisiva. […] La Siria è stata tenuta da dieci anni fuori dalla Storia, relegata in un angolo popolato di vittime e di piccoli boia ordinari. Serviva a rovesciarvi bombe, suscitare e eliminare milizie tutte della stessa risma, è stata un immenso poligono di tiro popolato non di sagome ma di essere viventi. Anche il terremoto rischia di entrare in questo scenario. Bashar già intravede vantaggi. La possibilità di dar fiato al dialogo in boccio con il nemico turco, anch’egli reso fragile dalla catastrofe, far cadere Idlib spezzonata dal terremoto meglio che dalle sue artiglierie. E usare gli aiuti per perfezionare il suo disegno di una Siria abitata solo da genti a lui fedeli, legati dal patto infrangibile della sopravvivenza. […] E noi, Occidente, gli stati uniti, che fare in questo terribile esercizio di sopravvivenza, di carità obbligatoria e difficile? Le sanzioni non sono servite a niente, 500 mila siriani sono morti, Bashar e i suoi terribili alleati hanno vinto la guerra. La comunità di Sant’Egidio, la Mezzaluna rossa siriana hanno chiesto di cancellarle o sospenderle per far affluire gli aiuti più facilmente ad esempio consentendo i collegamenti aerei, correre il rischio che il regime ci speculi, ne approfitti. Il nostro scopo non deve essere confondersi con la sola umanità possibile: i siriani sopravvissuti che la insensatezza della Storia tiene al cappio? Se il nostro tempo è questa lucida usura, ebbene, reggiamola, aiutiamo gli uomini. Si può domandare miglior avventura?
Domenico Quirico, La Stampa (9/2/2022)
Metto le mani avanti. Questo articolo è stato scritto senza Chat GPT, l'intelligenza artificiale di cui tutti parlano. In realtà è stato scritto anche senza poter chiedere una mano a Google, senza passare dalla sempiterna Wikipedia, senza poter vedere cosa si dice sui social. Insomma, è stato scritto senza Internet. Sono uno dei milioni di utenti impattati dal Tim Down e intanto scrivo ma chissà come lo trasmetterò in redazione: forse dettandolo al telefono come si faceva una volta. Ma nelle redazioni i dimafonisti - gli addetti a trascrivere gli articoli dettati al telefono - non ci sono più. Sono tornato negli anni `80. Allora ci fu il primo black out di Internet della storia: era il 27 ottobre 1980 e un malfunzionamento degli IMP (gli Interface Message Processor, i computer usati per connettere i nodi della rete, oggi li chiamiamo router), bloccò per qualche ora Internet, che ancora era Arpanet in realtà. Ma se ne accorsero in pochi, qualche decina di professori universitari: questa infatti era la rete nel 1980. Adesso, invece, un problema prolungato di Tim cambia la vita di decine di milioni di italiani. Che è successo? Stando a quello che dice l'azienda non si tratta di un attacco hacker ma di un malfunzionamento «dell'interconnessione internazionale che impatta il servizio a livello nazionale». Se così fosse non sarebbe uno scandalo, non ci sarebbe da indignarsi per la qualità della rete nostrana e neppure per quella globale. Internet ha dimostrato ovunque una eccezionale resilienza: quando all'inizio della pandemia gli utenti si sono improvvisamente moltiplicati (stavamo sempre online) ha retto alla grande. Ma i guasti o i problemi in rete accadono; ogni tanto vanno giù anche Google, Whatsapp e Amazon che pure hanno spalle molto più larghe dell'azienda italiana. A volte i problemi sono causati da attacchi esterni, ma spesso si tratta di errori umani. Solo che essendo gli utenti di Internet ormai più di cinque miliardi, gli errori sono più vistosi. Questo fenomeno un paio di anni fa un esperto l'ha spiegato così: «Stiamo mettendo sempre più uova negli stessi cestini, e ogni tanto qualche uovo si rompe». Fastidioso, ma non è una tragedia. Nelle stesse ore la nostra Agenzia nazionale per la cybersicurezza ha diramato una nota per avvisare che è in corso in Italia e nel mondo «un attacco hacker su larga scala». E questa è una storia diversa. Che non riguarda la presunta fragilità della rete ma le reali vulnerabilità dei server, ovvero dei computer, tramite i quali le nostre istituzioni abitano il mondo digitale. […] Non è uno scherzo, non è nemmeno la chat di lavoro che non mi funziona o la partita in streaming che non va. La sicurezza nazionale di un paese, il suo funzionamento, dipendono sempre di più dalla integrità dei sistemi informatici della pubblica amministrazione. Qualche giorno fa è finalmente partito il Servizio Ispezioni e Sanzioni dell'Agenzia: è un'ottima notizia. I fatti di questi giorni ci confermano che non possiamo fare a meno di Internet, è il posto dove trascorriamo una parte fondamentale delle nostre vite. La nostra casa digitale. Ma è ora di chiudere a chiave qualche porta.
Riccardo Luna, La Stampa (6/2/2023)
La musica è la migliore consolazione già per il fatto che non crea nuove parole. Anche quando accompagna delle parole, la sua magia prevale ed elimina il pericolo delle parole. Ma il suo stato più puro è quando risuona da sola. Le si crede senza riserve, poiché ciò che afferma riguarda i sentimenti. Il suo fluire è più libero di qualsiasi altra cosa che sembri umanamente possibile, e questa libertà redime. Quanto più fittamente la terra si popola, e quanto più meccanico diventa il modo di vivere, tanto più indispensabile deve diventare la musica. Verrà un giorno in cui essa soltanto permetterà di sfuggire alle strette maglie delle funzioni, e conservarla come possente e intatto serbatoio di libertà dovrà essere il compito più importante della vita intellettuale futura. La musica è la vera storia vivente dell’umanità, di cui altrimenti possediamo solo parti morte. Non c’è bisogno di attingervi, poiché esiste già da sempre in noi, e basta semplicemente ascoltare.
Elias Canetti (1905 - 1994), La provincia dell’uomo (1973)