Linea di non ritorno. Un anno dopo l’alba del 24 febbraio 2022, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov avverte che abbiamo raggiunto «la linea di non ritorno». Abbiamo — noi, al plurale — perché il Cremlino considera ormai la guerra in Ucraina uno scontro, forse proprio quello definitivo, con l’Occidente. Il confine fisico e metafisico che, una volta varcato, ci porterebbe all’apocalisse riguarda quindi non soltanto Volodymyr Zelensky e i suoi, ma l’intero schieramento “predatore” che — secondo la propaganda di Mosca — minaccia di incenerire in un corto circuito finale il mondo russo, i suoi interessi vitali e valori patriottici, la cultura stessa dei piccoli e grandi padri. Per questo Vladimir Putin proclama di non potersi e volersi fermare. Mobilita truppe e mezzi, non esclude l’apertura di un fronte settentrionale dalla Bielorussia, progetta un’altra offensiva che dovrebbe ristabilire il primato di Golia su Davide, data la sproporzione delle forze - demografiche, militari - in campo. […] Può mai Putin, che è causa della catastrofe, proporsi come il broker della riduzione del danno che ha provocato? Sarà mai affidabile, credibile, conseguente? È lo stesso schema di gioco internazionale che sta tentando Assad, cavalcando la disperazione assoluta seguita al terremoto in Siria, per recuperare centralità dopo 12 anni di bombardamenti e crimini contro l’umanità - l’umanità del suo stesso popolo, per altro. La risposta, 365 giorni dopo, è che fermarsi — se non indietreggiare — sarebbe più pericoloso e doloroso di non fermarsi. Torniamo allora oggi alle immagini che ci colpirono quando tutto cominciò e non eravamo assuefatti. A quella dei giovani genitori di Mariupol che corrono al pronto soccorso con in braccio il loro neonato, ferito a morte. A quella della madre con al seguito figlia e figlio adolescenti, con trolley e trasportino dei cani, tutti riversi lungo il marciapiede sotto il ponte bombardato a Irpin. E ancora a quella del padre che, a una fermata del bus di Kharkiv, stringe la mano del suo ragazzo che sbuca dal telo rosso: lo sguardo nel vuoto, vorrebbe restare lì, inginocchiato a terra, aggrappato per sempre all’ultimo contatto, pelle con pelle.Torniamo a un anno fa anche se siamo stanchi dell’orrore. O, meglio, proprio perché siamo stanchi e vorremmo scivolare in un’indifferenza collettiva che ci faccia da cuscinetto geopolitico rispetto al fronte orientale, da cuscino di piume e d’oblio quando arriviamo a casa la sera già provati dalle nostre giornate.
Barbara Stefanelli, Sette - Corriere della Sera (24/2/2023)
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