Festival è l’antico termine francese che indicava un evento sacro e popolare, arricchito da musica e danze. Nasceva dal bisogno di interrompere la fatica del lavoro quotidiano e condividerne i frutti. Dettata dal calendario liturgico e dai ritmi stagionali di terra e cielo, la festa dava senso agli altri giorni: riposare e gioire insieme del lavoro fatto, con musica e danza che sono i simboli umani della libertà dalle necessità dei giorni feriali. I Greci interrompevano anche le guerre per i loro festival. La città pagava il biglietto a tutti, anche ai più poveri, perché potessero partecipare a ciò che permetteva di riposare e di esistere come comunità. La polis, città in greco, da cui «politica», non era un contenitore di corpi, ma un progetto di vita da creare insieme: un’armonia che tutti erano chiamati a realizzare, per andare oltre il mero stato di necessità e vincere un po’ la morte. Il tutto si è poi trasferito nelle feste liturgiche cristiane, qualcosa rimane nei nostri sabati del villaggio, ma nel «villaggio globale» tutto questo accade in tv. Nella cultura secolare e nella società di massa ciò che crea comunità si è trasferito sullo schermo. Il Festival della canzone è infatti un’occasione (un’altra è la Nazionale di calcio) per riposare e rifondarsi come comunità. Ci basta? Funziona? Per l’evento, famiglie, amici e parenti si radunano in soggiorno e, se non è possibile, in chat. Si commenta, si danno voti, si demolisce, si osanna, in perfetto stile tribale social. Ma da dove viene questo potere unificante? È un rito culturale: riscopriamo la nostra lingua che, con le sue vocali finali e il suo ritmo, è fatta per il canto. È un rito sociale: riesce a unire, come la Nazionale, tutte le generazioni, da Mattarella a Madame. [...] Comunque sia noi di Sanremo abbiamo bisogno perché è San Remo: se manca il patrono un Paese non esiste, manca ciò che unisce gli uomini, il sacro, cioè, fuor di metafora, ciò che riceviamo dal passato e con cui dobbiamo fare i conti per rinnovarci. Che cosa fonda la nostra comunità e ci fa appartenere a questo Paese tanto da volerlo custodire e far crescere insieme? In un tempo in cui, individualisticamente slegati, ci sembra di non appartenere a nulla e nessuno, abbiamo ancor più bisogno di simboli (parola che significa «unire ciò che è separato»). Quali sono i nostri? Lo sport e le canzoni, in tv. È sempre più difficile trovare unità e gioia negli spazi dove la vita si svolge ogni giorno (città, scuola, cultura...) e non appartenere soltanto a supermercati, piattaforme streaming o social. Sarebbe bello fare città, civitas, comunità e civiltà, in posti in cui ci si trattiene e non solo ci si intrattiene, in cui si costruisce e non solo si consuma. Ma se ci uniamo per qualche sera, disposti a tardare davanti al teleschermo pur lavorando l’indomani, è perché ne abbiamo bisogno, o almeno ne ha avuto bisogno un italiano su sei, gli altri cinque cercano altrove. Ma, quando lo spettacolo è finito, quell’italiano aveva più vita o più sonno? Torna a lavorare, come dice amaramente la canzone dei miei conterranei, «per non stare» con chi ama, o invece ha ricevuto energie nuove per amare meglio chi ha accanto? Abbiamo fatto comunità o solo ascolti? Comunque sia ci aggrappiamo ancora all’arte per sapere se c’è un altro mondo, bello e unito, a cui appartenere, un mondo ancora da fare e in cui si può ancora cantare insieme per spostare la morte più in là.
Alessandro D'Avenia, Il Corriere della Sera (13/2/2023)
Canzone del giorno: Due vite (2023) - Marco Mengoni
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