Il politologo Giovanni Sartori,
sul Corriere della Sera di ieri, cita
il libro “Prozac Leadership”, scritto
da David Collinson, un professore universitario americano che descrive l’ottimismo
come un farmaco che promuove la felicità artificiale e indebolisce la capacità
critica.
È lo spunto per criticare la cultura dominante degli ultimi decenni che,
nel nome dell’eccessiva “positività”, ha sfibrato la facoltà di pensare dell’uomo
contemporaneo e generato il crac attuale: “la severissima recessione di gran parte dei Paesi benestanti ormai incrina questa fiducia
nella fiducia”. Secondo Sartori l’economia mondiale ha illuso tutti quanti
e ha anestetizzato la sensibilità al pericolo. Al riguardo cita un aforisma di
Jaggi Vasudev («Se non vedi le cose negative
del mondo che ti circonda vivi in un paradiso di idioti»), per poi
concludere l’editoriale focalizzando l’attenzione sull’intollerabilità del
livello di disoccupazione giovanile nel nostro Paese: “ Da noi vige ancora la corsa per fabbricare «tutti
dottori». Ma il grosso dei dottori che produciamo e che andremo a produrre
saranno inutili. O anche peggio, perché abbiamo troppe università scadenti, di
paternità clientelare, che andrebbero chiuse. Alle nuove generazioni occorrono
istituti tecnici e scuole di specializzazione collegati alla «economia verde»,
al ritorno alla terra, e anche alla piccola economia delle piccole cose. Altrimenti saremo sempre più disoccupati”.
Canzone del giorno: Prozac Rock (2012) - Margot and the Nuclear So & So's
Clicca e ascolta: Prozac....
Fino all’Ottocento l’economia era soprattutto agricola. C’erano anche l’artigianato (le botteghe) e i commerci; ma prima di tutto, tutti dovevano mangiare. Poi arrivò, all’inizio dell’Ottocento, la prima rivoluzione industriale con l’invenzione del telaio meccanico, e per esso delle fabbriche tessili. La seconda rivoluzione industriale fu quella della catena di montaggio delle automobili di Henry Ford, del quale si ricorda il detto: comprate l’automobile del colore che volete purché sia nero. Ma già negli anni Sessanta si profetizzò l’avvento della «società dei servizi» che può essere considerata anch’essa una rivoluzione industriale perché fondata sull’avvento dei computer. Difatti il paesaggio esibì sempre meno fabbriche e sempre più uffici.
Il guaio della società dei servizi è che si è gonfiata oltremisura, e che è diventata parassitaria nella misura in cui assorbe la crescita della disoccupazione. Nel contempo abbiamo incautamente sposato una dottrina sprovveduta della globalizzazione, che avrebbe inevitabilmente spostato grosse fette delle merci prodotte in Occidente in Paesi a basso, molto più basso, costo di lavoro. Ma ecco la novità: è in arrivo una quarta rivoluzione industriale che sembra ancora più radicale di tutte quelle che l’hanno preceduta. Non ha ancora un nome ufficiale, ma io la chiamerò «rivoluzione digitale». In questo contesto un prodotto viene disegnato su un computer e poi stampato su una stampante 3D che a sua volta produce un conforme oggetto solido fondendo assieme successivi strati di materiali.
Non chiedetemi di più. Sono troppo vecchio per capirlo, e poi a me interessa che fine farà, in questo radioso futuro, l’occupazione o meglio la disoccupazione. È vero che, in condizioni normali, l’economia «tira» di più se siamo ottimisti. Questo principio è stato consacrato negli Stati Uniti dalla formula della consumer confidence, la fiducia del consumatore, e del positive thinking, del pensare positivo. Ma la severissima recessione di gran parte dei Paesi benestanti oramai incrina questa fiducia nella fiducia. Un libro molto letto, oggi, nelle università americane, è Prozac Leadership di David Collinson: un titolo che dice tutto, e cioè che il crac è figlio di una cultura che «premiando l’ottimismo ha indebolito la capacità di pensare criticamente, ha anestetizzato la sensibilità al pericolo».
Come si sa, il Prozac è la pillola della felicità; e dunque il testo di Collinson si potrebbe anche intitolare «l’economia del Prozac». E un indiano rincara la dose: «Se non vedi le cose negative del mondo che ti circonda vivi in un paradiso per idioti» (Jaggi Vasudev). Bankitalia ha testé peggiorato le stime sul Pil (Prodotto interno lordo) che nel 2013 scenderà dell’1% e altrettanto scenderà l’occupazione. Che in verità scenderà di più, perché le statistiche non contano gli scoraggiati, chi non fa nemmeno domanda di lavoro. E il livello della nostra disoccupazione giovanile è davvero intollerabile.
Le imminenti elezioni non ci illumineranno su niente di tutto questo.Ma urge lo stesso occuparsene. Da noi vige ancora la corsa per fabbricare «tutti dottori». Ma il grosso dei dottori che produciamo e che andremo a produrre saranno inutili. O anche peggio, perché abbiamo troppe università scadenti, di paternità clientelare, che andrebbero chiuse. Alle nuove generazioni occorrono istituti tecnici e scuole di specializzazione collegati alla «economia verde», al ritorno alla terra, e anche alla piccola economia delle piccole cose. Altrimenti saremo sempre più disoccupati.
Fino all’Ottocento l’economia era soprattutto agricola. C’erano anche l’artigianato (le botteghe) e i commerci; ma prima di tutto, tutti dovevano mangiare. Poi arrivò, all’inizio dell’Ottocento, la prima rivoluzione industriale con l’invenzione del telaio meccanico, e per esso delle fabbriche tessili. La seconda rivoluzione industriale fu quella della catena di montaggio delle automobili di Henry Ford, del quale si ricorda il detto: comprate l’automobile del colore che volete purché sia nero. Ma già negli anni Sessanta si profetizzò l’avvento della «società dei servizi» che può essere considerata anch’essa una rivoluzione industriale perché fondata sull’avvento dei computer. Difatti il paesaggio esibì sempre meno fabbriche e sempre più uffici.
Il guaio della società dei servizi è che si è gonfiata oltremisura, e che è diventata parassitaria nella misura in cui assorbe la crescita della disoccupazione. Nel contempo abbiamo incautamente sposato una dottrina sprovveduta della globalizzazione, che avrebbe inevitabilmente spostato grosse fette delle merci prodotte in Occidente in Paesi a basso, molto più basso, costo di lavoro. Ma ecco la novità: è in arrivo una quarta rivoluzione industriale che sembra ancora più radicale di tutte quelle che l’hanno preceduta. Non ha ancora un nome ufficiale, ma io la chiamerò «rivoluzione digitale». In questo contesto un prodotto viene disegnato su un computer e poi stampato su una stampante 3D che a sua volta produce un conforme oggetto solido fondendo assieme successivi strati di materiali.
Non chiedetemi di più. Sono troppo vecchio per capirlo, e poi a me interessa che fine farà, in questo radioso futuro, l’occupazione o meglio la disoccupazione. È vero che, in condizioni normali, l’economia «tira» di più se siamo ottimisti. Questo principio è stato consacrato negli Stati Uniti dalla formula della consumer confidence, la fiducia del consumatore, e del positive thinking, del pensare positivo. Ma la severissima recessione di gran parte dei Paesi benestanti oramai incrina questa fiducia nella fiducia. Un libro molto letto, oggi, nelle università americane, è Prozac Leadership di David Collinson: un titolo che dice tutto, e cioè che il crac è figlio di una cultura che «premiando l’ottimismo ha indebolito la capacità di pensare criticamente, ha anestetizzato la sensibilità al pericolo».
Come si sa, il Prozac è la pillola della felicità; e dunque il testo di Collinson si potrebbe anche intitolare «l’economia del Prozac». E un indiano rincara la dose: «Se non vedi le cose negative del mondo che ti circonda vivi in un paradiso per idioti» (Jaggi Vasudev). Bankitalia ha testé peggiorato le stime sul Pil (Prodotto interno lordo) che nel 2013 scenderà dell’1% e altrettanto scenderà l’occupazione. Che in verità scenderà di più, perché le statistiche non contano gli scoraggiati, chi non fa nemmeno domanda di lavoro. E il livello della nostra disoccupazione giovanile è davvero intollerabile.
Le imminenti elezioni non ci illumineranno su niente di tutto questo.Ma urge lo stesso occuparsene. Da noi vige ancora la corsa per fabbricare «tutti dottori». Ma il grosso dei dottori che produciamo e che andremo a produrre saranno inutili. O anche peggio, perché abbiamo troppe università scadenti, di paternità clientelare, che andrebbero chiuse. Alle nuove generazioni occorrono istituti tecnici e scuole di specializzazione collegati alla «economia verde», al ritorno alla terra, e anche alla piccola economia delle piccole cose. Altrimenti saremo sempre più disoccupati.
Giovanni Sartori, CdS del 23 gen 2013