Intervento di Enzo Bianchi, priore della
Comunità monastica di Bose, su La Stampa:
Non dimenticate
l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo.
Questa esortazione della Lettera agli Ebrei - che fa riferimento alla vicenda
di Abramo che a Mamre accolse tre pellegrini stranieri rivelatisi poi
messaggeri di Dio - ci offre una chiave di lettura del Natale e del suo senso
nella nostra società oggi.
Cosa sapevano gli abitanti di Betlemme di
quella coppia in viaggio che cercava un riparo perché la donna incinta potesse
partorire? Ne avessero sospettata l’identità, le avrebbero aperto le porte
della loro casa, oppure si sarebbero limitati a tollerare che occupasse per un
po’ una stalla in disuso? I pastori dei dintorni - gente emarginata nella
società e nella comunità religiosa perché inadempienti agli obblighi cultuali e
legali - mossi dalla spontanea solidarietà verso chi è costretto a pernottare
all’aperto, decisero almeno di andare a vedere: e sappiamo tutti che, una volta
che il nostro sguardo incrocia quello di una persona nel bisogno, ci è molto
più difficile non prendercene cura... E quei tre sapienti di un’altra terra e
di un’altra religione, cosa sapevano di quel bambino figlio di poveri?
Cercavano un re, un inviato da Dio e trovano una famiglia di emigranti...
eppure non esitano a colmarla di doni regali. E quei due anziani al tempio di
Gerusalemme, come potevano riconoscere in un primogenito, figlio di una
famiglia anonima, riscattato con due tortore, offerta dei poveri, il Messia,
l’atteso per secoli da tutto il popolo?
Anche loro si limitano a prendere il piccolo tra
le braccia, a tesserne le lodi, a immaginarne il futuro, come siamo portati a
fare con qualsiasi neonato. Davvero un’apparizione nascosta, discreta,
quotidiana, quella del figlio di Dio in mezzo alla sua famiglia, l’umanità
intera: una presenza ordinaria che dice qualcosa in più solo a chi è disposto
all’accoglienza. Quest’anno molti vivono un Natale più difficile del solito,
non solo in quei luoghi dove la vita è sempre faticosa o dove testimoniare la
propria fede è sovente a rischio fino alla persecuzione, ma anche nel nostro
Paese, con sempre più persone in ristrettezze economiche. Questo dato si
interseca con una sorta di ambivalenza legata alle festività natalizie: da un
lato siamo quasi naturalmente più disposti ad atteggiamenti di benevolenza
verso il prossimo, di bontà, di riconciliazione; d’altro canto tendiamo a
vivere questi sentimenti «tra noi», all’interno della ristretta cerchia degli
intimi. Ambivalenza che rende ancor più pesante la solitudine e la sofferenza
di chi non ha persone care attorno a cui stringersi, di chi le ha perse, di chi
le ha lasciate lontano nella speranza di preparare un futuro migliore per
loro... Sì, a Natale ci sentiamo tutti più buoni, ma verso chi vogliamo noi,
verso chi decidiamo che sia destinatario del nostro affetto. E in tempo di
difficoltà economiche la tentazione è quella di rinchiuderci ancora di più nei
nostri piccoli nidi rassicuranti.
Solidarietà e accoglienza paiono a prima vista più
difficili nelle stagioni dure, nei momenti di difficoltà, soprattutto per chi
non le ha assunte come proprio habitus nei giorni più propizi. E invece la
storia, anche quella «sacra» legata alla nascita di Gesù, ci insegna che
proprio i poveri, i nomadi, i viandanti, gli emarginati, gli stranieri sono le
persone più capaci di accoglienza, di apertura all’altro, di condivisione del
poco di cui dispongono. E basta conoscerli, parlare con loro, lasciarsi
accogliere da loro per sentirli narrare le meraviglie degli incontri gratuiti
che hanno avuto: sono storie di ordinaria straordinarietà, vicende di rapporti
nati nell’emergenza e divenuti amicizie solide, avventure di un momento
burrascoso trasformatesi in storie di amore fedele. Forse questo Natale
potrebbe insegnarci qualcosa in merito: nello straniero che abita a pochi
isolati da noi e che incontriamo per strada, nel senzatetto che si rifugia tra
i suoi cartoni, nei nuovi poveri in coda per un pasto caldo, nell’anziano che
fatica a riscaldare la sua stanza c’è un essere umano portatore di vita e di
speranza, ci sono un cuore, un corpo e una mente che desiderano comunione, c’è
una presenza dell’assenza lacerante della persona amata.
Chi può dire cosa troviamo se ci accostiamo
all’altro senza pregiudizi e paure, se gli apriamo la porta del nostro cuore,
se gli restituiamo quella dignità che è suo diritto inalienabile? Chi di noi ha
guardato, dico «guardato», negli occhi un volto e si è sentito estraneo,
soprattutto quando quel volto presenta i segni della sofferenza? Non lo si
dimentichi: Dio si è mostrato in Gesù con tratti umanissimi perché ciò che era
straordinario in Gesù non era nulla di religioso ma solo umano, umanissimo. Sì,
Dio ha sembianze così umane che rischia di passare inosservato: per riconoscere
l’altro in verità, l’unico sguardo lungimirante resta quello dell’accoglienza,
oggi come a Betlemme duemila anni fa.