Non esiste la fotografia artistica. Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare.
Nadar (Gaspard-Fèlix Tournachon - 1820 - 1910)
"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".
Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)
Nadar (Gaspard-Fèlix Tournachon - 1820 - 1910)
Il popolo ha parlato e ha scelto il centrodestra e Giorgia Meloni, che ha divorato Salvini e ha trasformato la maggioranza relativa dei voti in maggioranza assoluta dei seggi, grazie al Rosatellum semi maggioritario. Le sue prime dichiarazioni notturne sono state molto prudenti, pur senza nascondere l’orgoglio per essere passata in 10 anni dall’1,9 al 26%. Ma questo risultato clamoroso si è realizzato a spese dell’alleato leghista sconfitto e umiliato anche nelle sue storiche roccaforti del Nord e questo potrebbe complicare la formazione del governo, mentre il vecchio Berlusconi, pur dimezzando i voti rispetto al 2018, ha resistito e potrebbe diventare l’ago della bilancia della coalizione. Poi, come ha ricordato Conte, l’altro vincitore delle elezioni con la rimonta al Sud a difesa del reddito di cittadinanza, il centrodestra è maggioranza in Parlamento ma non nel Paese, dove ribollono tensioni e timori per il futuro che hanno fatto aumentare le astensioni. Bruciante la sconfitta di Letta, del suo progetto di campo largo e del suo richiamo al voto utile, che ha sortito l’effetto opposto. Inferiore alle aspettative il risultato di Calenda-Renzi, che falliscono il progetto di impedire la vittoria della destra per tenere Draghi a Palazzo Chigi. Cancellati Di Maio, che non rientra in Parlamento, e gli estremisti Paragone, De Magistris e Rizzo. Adesso la sovranista postfascista Meloni deve affrontare gli esami dell’affidabilità europea e della fedeltà alla Costituzione nata dalla Resistenza. Per ora, le congratulazioni le sono arrivate dalla Le Pen, dal premier polacco Morawieski, dal neo franchista spagnolo Abascal e dai sovranisti tedeschi di Adf. Speriamo che arrivino anche quelli di Macron, Scholz e Von der Leyen
Paolo Mazzanti (26/9/2022), da inpiu.net
La storia della Seconda Repubblica è iniziata ventinove anni fa con un evento assai particolare: la convocazione al Quirinale dell’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, «spostato» a Palazzo Chigi per dar vita ad un governo d’emergenza. Curiosamente questa fase di storia dell’Italia repubblicana si chiude (non sappiamo se in via definitiva) con l’uscita dallo stesso edificio, Palazzo Chigi, di Mario Draghi, un personaggio dalle caratteristiche assai rassomiglianti a quelle dell’illustre predecessore. Reduce, Draghi, da un’impresa anch’essa simile a quella che toccò al presidente del Consiglio del 1993. Ciampi e Draghi — com’è noto — non sono stati gli unici premier emergenziali dell’ultimo trentennio. Nel 1995, pochi mesi dopo la temporanea uscita di scena di Ciampi, fu chiamato alla guida di un esecutivo altrettanto straordinario l’ex direttore generale della Banca d’Italia, Lamberto Dini (già ministro di Berlusconi, successivamente leader di un effimero partito di centrosinistra). Sedici anni dopo, fu la volta dell’ex rettore della Bocconi ed ex Commissario europeo, Mario Monti, anche lui scelto per la guida di un governo di salute pubblica e fondatore, in tempi successivi, di un partito dalla vita relativamente breve. Quattro «supertecnici» accomunati dall’aver guidato governi di «larghe intese» a cui i presidenti della Repubblica avevano affidato la missione di far fronte a situazioni che vennero presentate come uniche. [...] Non risulta che qualche altro Paese del mondo contemporaneo si sia sentito incoraggiato all’adozione di questo genere di soluzione per le proprie crisi. Già, come mai nessun altro è ricorso, in emergenza, ai supertecnici? Strano, no? Come mai gli altri Paesi, tutti, si ostinano a procedere per la via tradizionale del ricorso ad elezioni e della scelta di primo ministro e governo sulla base del responso elettorale? Nessun politologo — che ci risulti — ha mai provato a dare una risposta a queste domande. Così come nessun politologo si è fermato a riflettere sull’effetto che queste esperienze (ripetiamo: ben quattro nell’arco di un trentennio) possono avere avuto sul sistema politico. Le prime due (Ciampi e Dini) non paiono aver intaccato lo spirito dei primi Anni Novanta. Centrodestra e centrosinistra insistettero allora nel dar vita a schieramenti pur disomogenei che esprimevano coalizioni con annessa leadership da portare al governo legittimate da un voto. E furono, tra infiniti tormenti, gli anni dell’alternanza Berlusconi-Prodi. All’inizio del decennio passato, però, le cose sono cambiate radicalmente. Dopo l’esperienza Monti, il centrodestra — ancorché travolto dai marosi provocati dai guai giudiziari di Berlusconi — non ha rinunciato all’idea di presentarsi al proprio elettorato nella sua versione ormai trentennale. E al cospetto delle urne ha regolarmente indicato il capo del governo nel leader (stavolta presumibilmente la leader) del partito che avrebbe preso più voti. Il centrosinistra, no. Intimidito forse dalla qualità dei tecnici che evidentemente considerava superiore alla propria, da più di dieci anni ha scelto di non offrire al Paese né una coalizione né un leader per il governo. Neanche questa volta.[…] Nell’epoca intercorsa tra l’esperienza di Monti e quella di Draghi (2011-2022) il Pd non ha neanche più provato a conquistare la maggioranza dei voti e dei seggi parlamentari con una propria coalizione di governo. Mai più ha presentato agli elettori un candidato premier. Pierluigi Bersani che avrebbe potuto esserlo se si fosse andati al voto nel 2011, due anni dopo fu costretto a constatare che l’occasione giusta era andata persa. Da allora il Partito democratico si è specializzato nell’arte di giostrarsi nel caos parlamentare, contribuire alla nascita di coalizioni emergenziali e far poi durare la legislatura fino alla fine naturale facendo leva sull’attaccamento degli eletti al posto precedentemente conquistato. Questo metodo porta con sé indubbi vantaggi: presenza assicurata nel governo e nel sottogoverno, totale deresponsabilizzazione a fronte delle scelte più impegnative, irrilevanza di eventuali insuccessi elettorali. Ma, ora che è finita la campagna elettorale, sorge il dubbio che questo modo di prospettare il proprio futuro — facciamoci eleggere, poi sistemeremo le cose in Parlamento, contando sull’immediato tracollo degli avversari e, nel caso, chiamando a Palazzo Chigi un nuovo supertecnico — possa garantire una qualche affidabilità. Né ci sembra che una prospettiva del genere possa costituire per Mario Draghi un richiamo irresistibile.
Paolo Mieli, Il Corriere della Sera (21/09/2022)
L’AMORE DI OGNI GIORNO (Del amor de cada dia)
Può darsi che tutto sia stato detto
e che noi siamo nati
troppo tardi.
Ma questa gloria che
arde nelle vene,
nessuno – no! - la
vive in questo modo.
Tutto è possibile e ha avuto il suo nome:
tutto. Ma questo
bacio tuo e mio, questa
luce, questo fiore,
questa rugiada,
sono soltanto nostri,
donna e uomo.
Una donna e un uomo, gli unici, i primi,
-tu ed io, io e te -
con nomi e cognomi
che non si daranno
più alla creazione.
Abbiamo iniziato la Storia, veri
primo uomo e donna
riconosciuti,
proclamando l’amore e
il suo cammino.
Ramon de Garcìasol (1913 – 1994)
In nessuna "democrazia matura" c'è stato, o c'è, un turbinio di leggi elettorali come in Italia. Ma, l'Italia è una democrazia matura? Se la maturità è il tempo della stabilità, della consapevolezza di sé, della fiducia che abbiamo in noi stessi e ispiriamo negli altri, dell'affidabilità e della serietà, c'è da dubitare. Le riforme elettorali, talora in prossimità delle elezioni, perfino imposte con il voto di fiducia di chi è momentaneamente al governo per restarci, sono segno di smarrimento della bussola o tentativi di truccare i risultati a proprio favore. Furbizie, non istituzioni. In meno di venticinque anni, a partire dai referendum del 1991 e del 1993 contro "la proporzionale", abbiamo avuto vari sistemi elettorali strampalati di cui ci facciamo beffe perfino nel gergo: mattarellum, porcellum, italicum (dichiarato incostituzionale prima ancora d'avere la possibilità d'essere applicato), rosatellum, salvo poi, in fine, da parte di molti che si erano dati da fare, auspicare il ritorno al punto di partenza: la proporzionale! […] Un voto che vale due: se scegli una lista per la parte proporzionale ciò vale automaticamente per il candidato per la parte maggioritaria, e viceversa. In breve: i partiti manipolano il 50 per cento della libertà del tuo voto e lo fanno per assicurarsi i posti per i candidati che interessa a loro che siano eletti. La sacrosanta libertà elettorale è così platealmente violata. L'elettore consapevole avverte d'essere strumentalizzato. Tanto più, poi, in quanto nella quota proporzionale si presentano "liste bloccate" e l'elettore non può fare scelte di preferenza tra i candidati. In sostanza, crede di essere libero ma, in buona parte, è un prigioniero di scelte altrui: se gli piace un certo candidato nella quota maggioritaria, il suo voto trascina la lista nella quota proporzionale, anche se non gli piace affatto; se gli piace la lista proporzionale, il suo voto trascina il candidato nella quota maggioritaria, anche se ne farebbe volentieri a meno. In più, non può far valere alcuna scelta sulla quota proporzionale perché i candidati sono predisposti in un ordine ch'egli non può modificare. I partiti già non godono di molto credito, ma possiamo pensare che un sistema elettorale come questo li avvicini ai cittadini, come dovrebbe accadere in ogni occasione in cui li si convoca al voto, e non invece li allontani? Le leggi elettorali non dovrebbero essere fatte per i partiti e per i candidati, ma per i cittadini. In Italia, da troppi anni non è così. Dovrebbero, più di tutte le altre, essere stabili e semplici. Invece, quando ci si riesce, le si cambia in prossimità delle elezioni e si guarda ai vantaggi che si spera di trarne nell'immediato.
Gustavo Zagrebelsky, la Repubblica (15/9/2022)
Un libro può avere in sé il germe di un’idea cinematografica. Questi germe può trovarsi nella trama, nei personaggi, nell’ambientazione o in alcune situazioni. Ma ciò non significa che il libro in sé stesso possa dare origine a un buon film. Ho sempre considerato una suprema stupidaggine prendere un libro e filmarlo nella sua interezza soltanto perché una parte di questo era buona per lo schermo.
Alfred Hitchcock (1899 - 1980), Io, Hitchcock: Il maestro della brivido si racconta (2015 - Donzelli editore)
Come accade ad ogni tornata elettorale, alcune categorie di cittadini si ritroveranno tagliate fuori dalle urne. Non per volontà, ma a causa di una legislazione considerata dagli stessi esclusi come «anacronistica e discriminatoria». Si tratta degli italiani senza cittadinanza, degli studenti e dei lavoratori fuori sede: potenziali elettori che per ragioni diverse, di volta in volta, si ritrovano impossibilitati ad esercitare il diritto di voto. «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età”, recita l’articolo 48 della costituzione. “Tutti cittadini“, appunto. Un principio di uguaglianza declinato in chiave discriminatoria dalla politica, incapace di mettere mano alle vecchie normative che regolano l’accesso al voto, per chi vive lontano dal seggio o per chi non può ottenere la cittadinanza italiana, requisito fondamentale per godere appieno dei diritti politici. […] nel mese di settembre migliaia di fuorisede faranno ritorno presso la città in cui ha sede la propria università per affrontare la sessione d’esame e straordinaria. Una condizione, quest’ultima, che spesso si traduce nell’impossibilità di esercitare il diritto di voto. Tempi stretti, costi di viaggio e lunghe distanze rendono complicato il ritorno verso casa. Secondo l’Istat, la platea dei fuori sede - tra studenti e lavoratori - conta circa 5 milioni di elettori, il 10 per cento degli aventi diritto. Nella maggior parte dei casi si tratta di giovani tra i 18 e i 35 anni, principalmente residenti al Sud. Una fetta di potenziali elettori che di volta in volta contribuisce ad allargare la crescente percentuale degli astensionisti. La legge italiana non prevede metodi alternativi al voto tradizionale. O meglio: li prevede solo in determinati casi, come per i cittadini che risiedono stabilmente all’estero o per coloro che si trovano temporaneamente fuori dall’Italia per motivi di lavoro, salute o studio. Il risultato, però, è una situazione al limite del paradosso: diventa più facile votare per un cittadino che vive dall’altra parte del mondo rispetto a chi si trova a poche ore dal seggio. L’Italia è rimasto l’unico Paese europeo, insieme a Malta e Cipro, a non consentire una qualche forma di voto a distanza.
Gabriele Bartoloni, L’Espresso (4/9/2022)
Ha regnato su due secoli: e ha impresso il suo sigillo su entrambi. Ascesa al trono di un impero declinante, lo ha accompagnato lungo il suo tramonto: e il suo arco da sovrana si è chiuso con gli echi della Brexit, che sembrano prefigurare la dissoluzione dello stesso Regno Unito, e i bagliori della guerra in Europa. Sopravvivrà la monarchia, e con essa la Gran Bretagna, a Elisabetta? È la domanda che tutti, in queste ore e giorni, finiranno per porsi. Regina per caso, la figlia di Giorgio VI: perché quando nacque, non sembrava quello il suo destino. Suo padre era soltanto il duca di York, fratello cadetto del futuro sovrano: e lei una figura minore nel panorama della casa reale. Ma le stelle avevano visto diversamente: perché l’abdicazione di Edoardo VIII catapultò «Bertie» sul trono – e sua figlia, la piccola Lilibeth, divenne all’improvviso l’erede designata. […] Ogni settimana ha dato udienza ai primi ministri che sono sfilati sotto il suo scettro, da Churchill a Liz Truss: per essere consultata, per consigliare e per mettere in guardia. Quando ha avuto preoccupazioni, nel segreto di quegli incontri, le ha espresse: fino ai contrasti, neppure troppo dissimulati, con Margaret Thatcher, la prima premier donna con la quale avrebbe dovuto intendersi meglio e dalla quale invece non poteva essere più distante. E nei momenti più bui, è stata lei il faro verso il quale la nazione si è rivolta. Come durante la pandemia, quando ha pronunciato uno straordinario discorso televisivo che ha rincuorato gli animi e ha stretto i sudditi gli uni con gli altri: «We will meet again», ci incontreremo ancora. […] Un regno, quello di Elisabetta, che ha visto la Gran Bretagna passare dal ruolo di potenza mondiale a quello di Paese che prima ha abbracciato e poi ha abbandonato la costruzione europea – e che ha osservato l’avvicendarsi al suo fianco di tutti i presidenti americani del dopoguerra, da Eisenhower a Biden. Ma le turbolenze maggiori le ha procurate una monarchia in costante tensione fra tradizione e modernità, riflessa attraverso le dolorose vicende personali dei suoi membri. La prima prova in questo senso arrivò molto presto per Elisabetta: dalla sua amata sorella Margaret. La sovrana dovette vietarle le nozze, in nome della ragion di Stato, col divorziato capitano Townsend: condannandola così all’infelicità. Un copione che si è ripetuto con Diana, portata come un agnello sacrificale alle nozze con Carlo e abbandonata poi alla sua deriva. E fu la morte della principessa di Galles il test forse più difficile per Elisabetta: quando la sovrana apparve fredda, distante, scollegata dal sentire dei sudditi. Che per la prima volta rumoreggiarono all’indirizzo della regina. Lei comprese, capì che doveva cambiare: parlò alla nazione, e piegò il capo al passaggio del feretro della sventurata. […] Per ultima la pandemia ha messo a dura prova Elisabetta, privandola a lungo del suo attributo essenziale, la visibilità: la monarchia deve essere vista per essere creduta, è stato detto (e così si spiegano, tra l’altro, le mise sgargianti sempre indossate in pubblico). Ma una sovrana confinata per mesi a Windsor ha rischiato di vedere offuscata la sua aura. Lei ha fatto di tutto per restare presente, arrivando a prendere lezioni di Zoom dalla figlia Anna. E ha dato ancora una volta l’esempio, ricevendo il vaccino assieme al marito Filippo: gesto che però non l’ha messa al riparo dal Covid, che ha finito per contagiarla.
Luigi Ippolito, Corriere della Sera (9/9/2022)
Italo Svevo (1861 – 1928), La coscienza di Zeno (1923)
Sapere che degli esseri umani sono stati salvati da una morte sicura e imminente, perché “non bevevano da tre giorni”, può andar bene (si fa per dire) se si tratta di escursionisti che in montagna han perso la strada, di un gruppo rimasto sepolto in una galleria crollata, o dei sopravvissuti di un remoto villaggio isolato dai rifornimenti. Ma sentire da un telegiornale, infilata tra quella sul caro-ombrelloni e quella sul rilancio della dieta mediterranea, e riportata con fungibile tono routinario, la notizia che a pochi chilometri delle nostre spiagge è stato recuperato l’ennesimo carico di profughi, uomini donne e minori che “non bevevano da tre giorni”, significa assistere all’andazzo di accettazione che porta una società a fare spallucce se sta sul bordo di un inesausto recipiente di affogati e morti di sete. Con la differenza, appunto, rispetto a una inopinata disgrazia o a un incidente qualsiasi, che la routine di morte e sofferenza che va in scena sui nostri mari non ha nemmeno bisogno di essere preveduta perché è rappresentata con immancabile periodicità, e noi vi assistiamo dal palco di una noncuranza che giudicheremmo oltraggiosa nel caso di drammi ben più tenui. Può lasciare indifferenti – ed è un altro profilo della medesima sfigurazione – ma la vicenda di una vacca indonesiana rimasta imprigionata in un intrico di rami fa più strepito e riceve più attenzione pietosa rispetto a quella di gente che non beve da tre giorni (e cioè ha qualche ora di vita, se non fortuitamente salvata) nel tentativo di accostarsi al Paese per cui essa costituisce materia da comizio a difesa dei sacri confini. È gratuitamente retorico denunciare che un cane randagio, coi suoi indiscutibili tormenti, raccoglie più simpatie e più offerte di assistenza rispetto a quelle cui può ambire chi viene da noi dopo aver perso tutto, semmai ha posseduto qualcosa, chi ha abbandonato la propria terra portando con sé soltanto la propria fame, il proprio terrore, i propri figli nella disperata speranza che crescano senza soffrire la stessa fame, senza vivere in quel terrore: è retorica? È melodramma umanitarista? O è la piatta descrizione di quel che accade? Siamo parecchio divisi, per quanto uniti in una indistinguibile inefficienza, su come affrontare il cosiddetto fenomeno dell’immigrazione, ma i menù delle soluzioni lasciano in disparte, anzi nemmeno recano, la necessità prioritaria: che è quella di non farli morire di sete. Che è quella di non dover più assistere a un telegiornale che completa la scaletta delle scontatezze riferendo che quei poveretti non bevevano da tre giorni. E “poveretti” lo abbiamo aggiunto noi, perché il Tiggì avrebbe sforato, annotandolo.
Iuri Maria Prado, il Riformista (1/9/2022)
La vita punisce chi arriva in ritardo". Con un monito, che si sarebbe rivelato ben presto profetico, Mikhail Gorbaciov aveva cercato di spingere Eric Honecker, il più ortodosso tra i leader comunisti dei Paesi satelliti di Mosca, sulla via della perestrojka e della glasnost, le riforme che aveva intrapreso in Unione Sovietica. Gorbaciov era arrivato il 7 ottobre 1989 a Berlino Est per le celebrazioni del quarantesimo anniversario della Ddr, la Germania orientale. La foto del bacio tra Gorbaciov e Honecker all'aeroporto, quel triplice bacio che usava suggellare alleanze, ma non sempre amicizie, tra i leader comunisti dell' "Impero del male", secondo la storica definizione di Ronald Reagan, sarebbe diventata iconica. Perché fu anche l'ultima. Ma quel 7 ottobre, Berlino comunista, fortino della Sed (il partito comunista della Germania dell'Est) e della Stasi (il più temuto tra i servizi segreti dopo il Kgb), era già lambita dalle manifestazioni popolari. Da settimane decine di migliaia di tedeschi orientali, soprattutto giovani, cercavano di fuggire dal Paese passando dalla Cecoslovacchia e dall'Ungheria. A Lipsia centinaia di persone marciavano da giorni nelle strade della città. E a Dresda il capo della locale "stazione" del Kgb, il tenente colonnello Vladimir Putin, chiedeva sempre più affannosamente istruzioni a Mosca. In Polonia il partito comunista era da mesi fuori dai giochi, Solidarnosc aveva stravinto le elezioni del 4 giugno e il generale Jaruzelski aveva dato le dimissioni da segretario del pc, pur restando capo dello Stato, e aveva nominato premier Tadeusz Mazowiecki, il primo non comunista a guidare un governo polacco nel dopoguerra. A Praga 250mi1a persone si erano radunate a Piazza Venceslao per acclamare Alexander Dubcek, il leader della Primavera schiacciata dai carri armati di Breznev e deposto da Gustav Husak, proconsole del Cremlino con l'incarico di "normalizzare" la Cecoslovacchia ribelle (Dubcek era stato umiliato e esiliato nella natia Bratislava). L'impero stava crollando (e Gorbaciov era stato il grande catalizzatore di quell'ondata di ribellione ai regimi comunisti che gli storici hanno paragonato per importanza a quella che attraverso l'Europa nel 1848). Ma Honecker non voleva accettare la realtà. Nella sua testa sperava ancora che i carri armati sovietici sarebbero arrivati a salvarlo, come era accaduto a Budapest nel 1956 o a Praga nel 1968. Come lo sperava il "capo stazione" del Kgb a Dresda, Vladimir Putin. Eppure Gennadij Gerasimov, il portavoce di Gorby, aveva detto pubblicamente, durante una visita in Finlandia: «Io penso che la dottrina Breznev sia morta». E aveva ironicamente suggerito che era meglio sostituirla con la "dottrina Sinatra", quella della celebre canzone My Way: «Ognuno (dei Paesi dell'Europa orientale) deve andare per la sua strada». Honecker, invece, non conosceva altra strada che quella del comunismo ortodosso, che in salsa tedesca era ancora più rigido e occhiuto e il Muro di Berlino ne era la testimonianza: la Germania dell'Est era una prigione, dove tutti erano sotto il controllo del partito e della Stasi (ricordate quel magnifico film "Le vite degli altri"?). Così a Gorbaciov, che lo invitava a seguire il suo esempio, rispose con sdegno: «Se uno ha deciso di imbiancare la propria casa non è detto che tutti debbano seguirlo». […] L' "Impero del Male" non esisteva più, la cortina di ferro, che come disse Churchill nel celebre discorso di Fulton nel 1945 «scendeva dal Baltico a Trieste» spaccando in due l'Europa, era stata demolita. E Gorbaciov era stato il picconatore. Forse proprio per questo l'ex tenente colonnello del Kgb diventato presidente della Russia non lo ha mai amato: per lui, come ha detto più volte, la fine dell'Urss è stata la più grande tragedia della Storia. L'opposizione di Gorbaciov alla guerra in Ucraina, mai ufficializzata ma comunque coerente con la "dottrina Sinatra", ha acuito l'astio di Putin riflesso dalla fredda reazione ufficiale alla notizia della morte. Come Nikita Krusciov, un altro riformatore spodestato dal Cremlino e diventato una "non persona", Gorbaciov non avrà funerali di Stato. E come Krusciov sarà sepolto nel cimitero di Novodievici, riservato ai grandi russi invisi al regime. Nel più puro vecchio stile sovietico.
Paolo Galimberti, Repubblica (1/9/2022)
Mauro Biani, da google.it |
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2.
Tinsley Ellis, Hot Potato – (Georgia
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3.
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Path Tonight – 2016) – Se Stessi
4.
The Zen Circus, Canzone contro la natura – (Canzoni
contro la natura – 2014) –
Mega-foreste
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Than Your Avarage – 2002) – Agenda
Draghi
6.
Clavdio, Cuore – (Togliatti
Boulevard – 2019) – La memoria del
cuore
7.
Christone “Kingfish” Ingram, Outiside of This Town – (Kingfish – 2019) – Afghanistan
8.
Pink Floyd, The Gunner’s Dream – (The
Final Cut – 1983) – The Gunner’s
Dream
9.
Macy Gray, I Try – (On
How Life Is – 1999) – Due velocità
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Duke Ellington, Juniflip – (Newport
1958 – 1958) – Problema
11.
Carmen Consoli, Sulle rive di Morfeo – (Eva
contro Eva – 2006) – Famelici
12.
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– 2002) – No estremismi
13.
Harry Connick Jr., I’ve Got a Great Idea – (We
Are in Love – 1990) – Battaglia di
idee