Dal particolare al generale: le amministrative, si sa, come qualsiasi mini-test sono l'occasione in Italia per ragionare sulle politiche, peraltro imminenti. E anche se domenica hanno votato poco più di 800 mila elettori, dei 14 milioni chiamati alle urne, le vittorie a Verona, Parma, Piacenza, Alessandria e Catanzaro hanno dato al cento sinistra la sensazione di poter ipotecare la prossima, più importante, scadenza nazionale. Cosi come quelle a Genova e Palermo avevano creato nel centrodestra la stessa impressione due settimane fa. Ovviamente ricavare da risultati limitati e locali indicazioni da spendere nel futuro si può sempre; meno utile è affidarsi a certezze effimere, che possono essere smentite. Del passato recente si suol citare l'esempio per le votazioni per i sindaci nel 93, che videro strabordare i candidati di centrosinistra salvo poi aprire la strada alla storica, quella sì, vittoria di Berlusconi del ‘94. Un'attenta analisi dei risultati stavolta non può che confermare le criticità attraversate dalle due coalizioni anche prima del voto: facendo temere che, se le cose non cambieranno, ed è difficile, lo sbocco più probabile delle elezioni del 2023 potrebbe essere simile a quelli de12013 e 2018: cioè la “non vittoria", come la definì Bersani che la sperimentò per primo, di ciascuno dei due schieramenti. E la conseguente difficoltà di formare una maggioranza in Parlamento, al di là di formule avventurose come il governo gialloverde 5 stelle-Lega del 2018-19, affondato da Salvini nella crisi del Papeete. A questa prospettiva concorre, nel centrodestra, lo stato preoccupante dei rapporti tra i tre leader, Berlusconi, Salvinie Meloni, che si ripercuote localmente in una serie infinite di liti tra comari” incomprensibili quanto irrisolvibili. (…) Ma anche dall'altra parte la situazione non è rosea. Se íl centrodestra vince quando è unito, e non lo è quasi mai, il centrosinistra vince talvolta anche quando non dà grandi prove di unità, ma a condizione, appunto, che il œntrodestra sia diviso. Sarà pur vero che il "campo Largo" è runica strategia possibile per Letta, perché gli consente di tenere insieme senza chiarimenti programmatici preventivi, come ai tempi dell'Ulivo, le forze più disparate. (…) In conclusione viene da chiedersi se davvero sia un male -ammesso che si verifichi -che anche le elezioni del 2023 si concludano senza vincitori né vinti. E la risposta, da pronunciare sottovoce e al momento opportuno, è che non è affatto detto che lo sia. Se serve a garantire a Draghi di poter portare a termine il proprio lavoro in anni, come i prossimi, meno affollati di scadenze elettorali, e se può essere utile ai partiti per rigenerarsi, ben venga la “non vittoria”.
Marcello Sorgi, La Stampa (28/6/2022)
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