Siamo pronti a men-vivere, mettere il segno meno davanti a molte azioni dell’esistenza quotidiana? Quando nel 1999 Roberto Benigni ricevendo l’Oscar, ringraziò i genitori per avergli “regalato la cosa più importante: la povertà”, pochi capirono il senso di quella dedica. O la considerarono una simpatica iperbole. Stava finendo un secolo la cui seconda parte si era sforzata con relativo successo di rimediare ai danni della prima. In Occidente il Novecento si chiudeva come un cassetto, destinato a nascondere demoni, biancheria sporca, miserie e deliri contrabbandati per ideali. L’ultima, limitata, prova di resistenza la si era avuta negli anni Settanta con l’austerity dovuta alla crisi petrolifera. Qualche domenica a piedi ed era passata la paura. Da lì in poi, tutta discesa. Garantita. In quello stesso anno ’99 incontrai in Texas un uomo che era uscito dopo anni di ingiusta condanna dal braccio della morte. Quando gli chiesi quale era stata la lezione principale che ne avesse ricavato rispose: “È che prima davo per scontate le stelle, bastava alzare lo sguardo di notte. Poi, invece, facevo lo stesso gesto e niente”. Noi apriamo un rubinetto ed esce l’acqua. Accendiamo un fornello ed ecco il gas. Ci aspettiamo come inevitabili le stagioni, le piogge, il rifornimento infinito di beni, sostanze, possibilità. Sono rimasti in pochi a poter pronunciare la fatidica frase: “A voi vi ci vorrebbe una guerra”. Chi è cresciuto con quel ritornello oggi è a sua volta anziano e ha trascorso l’esistenza facendo percorso netto. Al massimo ha risparmiato il getto continuo nella doccia o qualche asciugamano negli alberghi per ragioni ecologiche, non certo perché pensasse che non ci sarebbero state scorte o ricambi. La stessa inflazione è archeologia finanziaria e sociale: alzi la mano chi ha mai investito in buoni del tesoro con rendimento in doppia cifra. C’è stata la pandemia, è vero, ma proprio il fatto che avesse trovato un contenimento rende più difficile affrontare la situazione. Si era tutti lì, pronti a riscavalcare gli argini, a riprendersi la vita data per scontata, quella con le stelle, l’aria condizionata, la pace in cortile e l’avventura no limits, quella che non ci si è mai accorti fosse un privilegio di una parte del mondo e non una condizione universale. E che cosa ci si viene a raccontare? Che potrebbe esserci un’ondata estiva di covid? Che bisognerà razionare le risorse? Che un metro quadrato costerà in spiaggia come in un attico? Ma come è possibile? Di chi è la colpa? Scorrendo certe analisi si coglie l’insofferenza per tutte le possibili cause: anche questi ucraini, non sarebbe ora che si arrendessero? Anche Draghi, non aveva promesso soldi a tutti? Anche il virus, non era finito? Da lì al negazionismo del presente il passo è breve. Da lì alla rivolta contro l’ineluttabile ne manca soltanto un altro. Vanno entrambi verso il precipizio. Ma qui e ora non si è capaci di fare “senza”. È una parola che ai più mette paura, un prefisso per condizioni marginali, in qualsiasi lingua: da senza tetto a sans-papiers. Che l’esistenza sia un vestito senza tasche (con niente arriviamo e con niente ce ne andiamo) è una verità che ci folgora sul traguardo. Lungo il percorso si accumula, si pretende, si considerano i profeti dell’essenzialità alla stregua dei poeti: gente che si prende una licenza. Cinquant’anni fa i leader politici pronunciavano la parola “sacrifici” e inducevano ad attuarli. Se oggi i loro presunti eredi arrivano alla prima sillaba gli tirano un sondaggio che rivela un crollo di consensi e fanno finta di aver soltanto provato il microfono( “sa-sa-sa”). Al referendum sulla disponibilità a men-vivere una maggioranza assoluta e trasversale risponderebbe “no”. Bene. Ma ci sarà un’alternativa?
Gabriele Romagnoli, la Repubblica (18/6/2022)
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