Da qualche tempo, nelle pagine dei giornali si inseguono pressanti inviti, al governo e al suo premier, a parlare, a «dire qualcosa», a una popolazione incerta sul proprio futuro. Soprassediamo su qualche risatina sardonica sui silenzi di vertice: restano comunque inviti che dimostrano una seria preoccupazione per il vuoto di prospettive, di conoscenze e di pensiero, che si va formando nella mente dei cittadini. La risposta ufficiosa a tali inviti e preoccupazioni è: «prima facciamo e poi parliamo»; risposta dignitosa e onesta, per cui è scorretto fare polemica. Ma chi per mestiere «annusa» l’aria che tira avverte che la gente non si riscalda su incoraggiamenti generici e su annunci di un mirabolante futuro, piuttosto vince in modo inerte e diffuso un solo messaggio: «continuate ad avere paura, perché rischiamo il non controllo dell’epidemia e l’aumento dei morti». È questo il messaggio che è passato e resta nel retropensiero collettivo; e se solo ripensiamo ai nostri colloqui con condomini e amici, troviamo che quasi tutti vivono in un’atmosfera di cautela, di stop a tutto, di accucciamento collettivo nella propria casa e nel proprio difficile presente. In questo deserto di stanca casalinga passività (solo parzialmente bilanciata da frasi tipo «ce la faremo» o «ne usciremo») la forza ancestrale della paura di morire, magari anche di vaccino, ci rende di fatto inermi e inerti. Chiediamo quindi consolazione e ristori, certo non incitamenti a reagire. Eppure nelle crisi drammatiche che noi italiani abbiamo vissuto, dal dopoguerra ai primi anni 2000, nessuno, né governo né popolo, ha mai galleggiato come ora sulla paura e sulle rassicurazioni. Ci siamo sempre mobilitati tutti a resistere ai picchi di crisi; a difendere la propria attività; a mettere in campo le antiche capacità di adattamento. Magari non abbiamo avuto il coraggio shakespeariano di prendere le armi contro un mare di guai, ma per decenni non ci è mancata la forza per una reazione vitale, proattiva, rispetto alle difficoltà. Se oggi, ormai da mesi, non scatta tale reazione vitale, mi sembra inutile continuare a chiedere all’attuale premier di «dire qualcosa». Forse al contrario dovremmo essere noi, come società civile, a dire qualcosa a lui, segnalando che l’accucciamento nella paura non porta da nessuna parte; che i bonus e il non-lavoro (lo smart working) non creano nuova sostenibilità, ma solo il crollo dell’iniziativa individuale e imprenditoriale; che la prima cosa che desideriamo è il break dell’attuale messaggio di stop a tutti. Siamo noi quindi che dobbiamo collettivamente maturare un po’ di voglia di uscire dall’ormai lungo letargo di vitalità. E se per fare questo dovessimo avere bisogno di guardarci dentro con coscienza critica, allora anche un invito al silenzio potrebbe rivelarsi utile. E poi, se in un lontano futuro, questa autocoscienza collettiva si salderà con il successo della campagna di vaccinazione, allora ci sarà più spazio per messaggi «in alato», volti a far ripartire il «progressio populorum», e più spazio alla base per accettarli e farli propri.
Giuseppe De Rita, Corriere della Sera (10/4/2021)
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