È un anno ormai che a scuola si va e non si va, ma soprattutto non si va. È un anno quindi che manca a una gigantesca quantità di ragazzi la consuetudine, quella metà di vita quotidiana che è un dovere e uno spazio e un tempo dove accade quasi tutto. Le scuole non sono soltanto dei contenitori di esseri umani molto giovani, di quantità di ormoni scattanti, e di compiti, interrogazioni e spiegazioni. Ma sono dei contenitori di esperienze e di emozioni che prescindono dal programma scolastico – di cui si occupano ossessivamente i genitori nella chat di gruppo, fin dalla scuola materna, quando cominciano a dire sospettosi che hanno la sensazione che la classe stia un po’ indietro con il programma, e continueranno a scriverlo in modo compulsivo su whatsapp fino all’ultimo giorno della carriera scolastica dei loro figli. Della vita, invece, si occupano i figli. La didattica a distanza è svegliarsi a casa, fare lezione a casa, e non dover tornare a casa perché ci sei già. La scuola è uscire, vestirsi con quel maglione perché quella della 3C ti ha detto che è di un bel colore, inzupparsi sotto la pioggia, saltare giù di corsa alla fermata, sentire chiarissimo l’odore della primavera, oppure correre nel gelo e pensare che il futuro è tuo. È tornare a casa affamati, farlo insieme a un amico facendo progetti per la sera, o guardando gli altri che si divertono e tu che torni da solo. Perché non manca solo la felicità, l’euforia, la sensazione di avercela fatta a stare nel mondo; ma manca anche la solitudine, pensare che non andrai mai in un bar a bere la birra con quegli amici o qualsiasi altro essere umano. La irripetibilità dei giorni e degli anni di scuola sta nel fatto che pensi che il mondo sia quello, che qualsiasi persona non vada più a scuola sia decrepita e non ha più senso che stia al mondo; sta nel fatto che pensi che sarai per sempre il più fico, il più sfigato, il più simpatico, il più coglione. Per sempre. […] A scuola accadono tante cose che non riguardano la scuola. La classe, quello dietro di te, quello che arriva in ritardo e ha sempre una scusa nuova, da applausi, quelli che non entrano oggi perché c’è sciopero, e quei tre che invece sono entrati (chissà mai perché) e saranno loro, come accade dalla preistoria ai giorni nostri, a prendersi addosso una lunga tirata del professore di turno contro la scelta di non venire a scuola, detta con violenza a chi a scuola ci è venuto. Ma da quando suona la sveglia di mattina fino a quando si torna a casa urlando: sono io!, c’è tutta quella mezza vita che comprende anche l’altra metà: il primo bacio fuori scuola, la prima volta che ti hanno lasciato sulla panchina del cortile, il primo invito a una festa, il primo bigliettino passato da un banco all’altro, diventare un eroe per aver risposto male al prof, innamorarsi della lezione di un altro prof, nascondere qualcosa in bagno, le chiacchiere sugli scalini pensando non voglio tornare a casa mai più, quei brividi di freddo dell’inizio influenza e qualcuno che viene a prenderti, dire a un compagno se vuole venire a studiare da te e lui dice non posso e poi va da un altro, il dolore che non se ne va per un sacco di tempo e il corpo che impara a sopportarlo, e impara anche a capire che il dolore passerà, che quando la compagna di banco bellissima ti dice no, poi passerà, come passa il 3 al compito di matematica e tu prometti che recuperi […] In più, è a scuola, in mezzo agli altri, durante quelle ore infinite, che ci si sente soli, che ci si sente infelici e si pensa che sarà così per sempre. È a scuola che si va incontro alla primavoltità dei fallimenti, è lì che ti puoi sentire l’ultimo al mondo, una sensazione da cui la casa ti protegge, e se invece ti sei sentito, a ragione ma più probabilmente a torto, l’ultimo al mondo, è in quel momento che hai capito di più di te stesso, e da quel te stesso non ti allontanerai più. A scuola, e non a casa, si sentono più nitidi i giorni di infelicità, di tristezza insensata. E tutto questo groviglio si scioglie in una sensazione più precisa, che si può sintetizzare in una sola parola: amarezza. E l’amarezza si può sentire in mezzo agli altri, o tornando a casa a testa bassa dopo essersi allontanati dagli altri. L’amarezza è la sintesi dei grovigli che quando si è ragazzi, non si saprà mai perché, sono in maggior numero rispetto alle euforie. A scuola si sente, e si impara a riconoscere, e a capire, l’amarezza. E senza, come ci si potrà sedere davanti alla commissione, come si può diventare grandi, come si può entrare per davvero nel centro del mondo?
Francesco Piccolo, Robinson (La Repubblica – 20/2/2021)
Canzone del giorno: Primavera (1997) - Marina Rei
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