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"L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!”. “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne avrete una traccia scritta".

Lewis Carroll, Attraverso lo specchio (1871)

sabato 9 giugno 2018

U Caravaggio

L’Italia è il primo Paese al mondo per numero di furti d’arte: 55 al giorno, quasi 20 mila all’anno. Un traffico illecito che vale, a livello globale, più di 9 miliardi di euro. Colpi con le armi in pugno o all’Arsenio Lupin, con il crimine organizzato spesso a tirar le fila.
È l’autunno del 1969. Nel cuore antico di Palermo alcuni uomini scardinano la serratura dell’oratorio di San Lorenzo. Tagliano con una lama il dipinto, lo arrotolano e lo caricano su un autocarro. Da allora il mistero avvolge una delle 70 opere dell’artista rivoluzionario, il genio della luce. La “Natività” del Caravaggio è in cima alla lista dei capolavori latitanti, il Matteo Messina Denaro dell’arte. Usata come scendiletto da Totò Riina, nascosta in una stalla, mangiata dai topi, mostrata come un trofeo nei summit della Cupola, distrutta in Irpinia durante il terremoto. 
Solo dopo quasi cinquant’anni di depistaggi arriva la svolta: «il furto maturò nell’ambiente dei piccoli criminali, ma l’importanza del quadro indusse i
massimi vertici di Cosa nostra a rivendicare l’opera» svela il collaboratore di giustizia Gaetano Grado alla Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi.
“U Caravaggio” fu consegnato prima a Stefano Bontate, capo del mandamento “competente”, e poi a Gaetano Badalamenti all’epoca al vertice dell’organizzazione mafiosa. Don Tano, il padrino dei “cento passi” di Cinisi, «ne curò il trasferimento all’estero con la mediazione di un antiquario svizzero. Davanti al quadro si è messo a piangere».
È un racconto preciso quello di Grado che riconosce persino in fotografia l’intermediario di Lugano. È morto da tempo, ma il suo nome è un altro dettaglio prezioso per gli inquirenti. Anche Francesco Marino Mannoia, detto il chimico per la sua bravura nel raffinare eroina, ammette di aver fatto parte della batteria di ladri e ritratta la sua precedente dichiarazione: non l’ha bruciata. Oggi, scrive la Commissione, «si può ritenere, ed è un’acquisizione fondamentale, che l’opera non sia andata perduta». La tela, entrata nella Top Ten Art crimes stilata dell’Fbi, ha un valore di 20 milioni di dollari, ma per lo storico dell’arte Claudio Strinati: «è comunque difficile stabilire un prezzo sul mercato legale, essendo invendibile in quanto rubata».
La banalità del potere mafioso, capace di trattare un capolavoro d’arte come una cassetta di sigarette di contrabbando o una partita di droga. Tagliata in quattro parti sarebbe stata trasferita in Svizzera, smistata e venduta sul mercato clandestino. La bellezza sottratta e la mafia che lucra. «Con il traffico di opere ci manteniamo la famiglia», scrive in un pizzino Matteo Messina Denaro. Pochi rischi, massimo guadagno, nessuna tracciabilità, come per i Vincent Van Gogh trafugati dal museo di Amsterdam e ritrovati a casa del ras del narcotraffico Raffaele Imperiale. Li conservava in cantina, dietro agli scaffali. L’arte non l’amava affatto, era solo riciclaggio. Valevano un centinaio di milioni. (…)

La banca dati dei carabinieri contiene oltre un milione di oggetti da ritrovare. L’impegno però si scontra con i criminali che sanno di correre pochi rischi a fronte di enormi guadagni. Il principale strumento normativo è infatti il Codice dei beni culturali, meno incisivo di quello penale. In ballo c’era un disegno di legge, approvato già alla Camera, ma la legislatura è terminata. E intanto il museo del crimine continua ad arricchirsi, rubandoci memoria e cultura.

Floriana Bulfon, L’Espresso (20/4/2018)

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