È inutile sorprendersi per quanto è
successo negli ultimi giorni e rischia ancora di accadere fino a domani,
termine ultimo per la presentazione delle liste elettorali. I partiti personali, come quello fondato nel 1994 da Berlusconi e copiato in
questa occasione da Renzi e Di Maio, in Italia purtroppo non sono una novità.
Né lo è il metodo ormai collaudato di approfittare delle elezioni per mandare
in Parlamento solo fedelissimi che devono obbedire sempre al capo, costi quel
che costi, e emarginare i possibili dissidenti. Il fatto che Berlusconi, negli
anni, abbia dovuto subire un certo numero di «tradimenti», come li chiama lui,
giunti a mettere in crisi più volte i suoi governi, non vuol dire che il suo
sistema non funzioni o si sia usurato nel tempo; semmai che esiste sempre, in
democrazia, anche in una democrazia ridotta come la nostra, un certo tasso di
imprevedibilità e di vitalità, che ne garantisce la riscossa rispetto ai
disegni apparentemente invincibili dei leader carismatici. (…)
Ai nastri di partenza della campagna
elettorale, e ormai a un solo mese dal voto del 4 marzo, si è così
materializzato un estremo paradosso: Berlusconi, per stanchezza e insieme per
astuzia, si prepara ad abbandonare il meccanismo autoritario del «partito
personale», cucendosi addosso il personaggio del nonnetto che volentieri si
sarebbe ritirato, ma deve tornare in campo per salvare il Paese. Mentre l’erede
della tradizione novecentesca dei partiti di massa - Renzi -, e quello della neonata
finta democrazia telematica - Di Maio -, da sponde opposte confluiscono sull’ex
modello berlusconiano, che gli elettori hanno già mostrato di rifiutare con la
crescente e larghissima astensione dalle urne.
A questo punto l’Italia
non potrà che apparire di nuovo come un Paese anomalo. Altrove, infatti, dalla
Spagna alla Francia alla Germania, per citare i grandi Paesi dove s’è votato da
poco, sono stati i partiti di governo a battersi anche a costi politici
notevoli contro l’insidia dei movimenti populisti antieuropei. Qui a difendere
l’Europa e le sue regole, severe quante necessarie, alla fine resteranno il
vecchio Silvio e il paziente e prudente Gentiloni.
Marcello Sorgi, La Stampa (28/1/2018)
Canzone del giorno: Democracy (1996) - Killing Joke
Clicca e ascolta: Democracy....
È inutile sorprendersi per quanto è
successo negli ultimi giorni e rischia ancora di accadere fino a domani,
termine ultimo per la presentazione delle liste elettorali.
I partiti personali, come quello fondato nel 1994 da Berlusconi e copiato in
questa occasione da Renzi e Di Maio, in Italia purtroppo non sono una novità.
Né lo è il metodo ormai collaudato di approfittare delle elezioni per mandare
in Parlamento solo fedelissimi che devono obbedire sempre al capo, costi quel
che costi, e emarginare i possibili dissidenti. Il fatto che Berlusconi, negli
anni, abbia dovuto subire un certo numero di «tradimenti», come li chiama lui,
giunti a mettere in crisi più volte i suoi governi, non vuol dire che il suo
sistema non funzioni o si sia usurato nel tempo; semmai che esiste sempre, in
democrazia, anche in una democrazia ridotta come la nostra, un certo tasso di
imprevedibilità e di vitalità, che ne garantisce la riscossa rispetto ai
disegni apparentemente invincibili dei leader carismatici: forme di «dispotismo»,
li giudicava quasi un quarto di secolo fa proprio su «La Stampa» Norberto
Bobbio, presagendone gli effetti funesti.
Da allora a oggi, da quando Bobbio definì
Forza Italia «primo partito personale di massa», annotando del suo fondatore
«la perizia da vecchio comico», e non immaginando neppure lontanamente che a un
certo punto sarebbe arrivato un comico vero a sbaragliare il campo, la sola
differenza è che per quanto tanti ci avessero provato, solo Berlusconi era
riuscito a tenere in vita il suo partito-azienda, assistendo soddisfatto alle
cadute di avversari interni e esterni e improbabili imitatori. Inoltre, a
contrastare la novità imposta dall’ex Cavaliere, per decenni ma con fortune
alterne era rimasto il centrosinistra, legato ancora, seppure con vistose
eccezioni e ripensamenti, a una visione più classica della democrazia
parlamentare. Sempre Bobbio non a caso ammoniva: «Il partito creato da una
persona è in contrasto con il partito in senso proprio che consiste in
un’associazione di persone».
Come sia potuto accadere, nel giro di una
settimana, che ciò che era apparso impossibile per tanto tempo sia diventato
realtà, non è ancora chiaro del tutto. Fatto sta che Renzi, dopo aver promesso
e ripromesso che avrebbe abbandonato la modalità «uomo solo al comando», per
scegliere le parole d’ordine del pluralismo e della squadra, in un paio di
nottate ha spianato le minoranze interne del Pd e ha riscritto le sue liste,
inzeppandole di fedelissimi e riservando agli alleati e a chi non la pensa come
lui appena qualche decina di candidati sicuri, cioè in grado di essere eletti,
rispetto ai duecento, più o meno, che conta di portare ai suoi ordini alla
Camera e al Senato. Più o meno lo stesso ha fatto Di Maio, nelle stesse ore in
cui Grillo prendeva platealmente le distanze dal Movimento di cui è fondatore e
garante e annunciava di tornare a dedicarsi agli amati spettacoli teatrali e
alle «utopie». Al contrario, il «capo politico» dei 5 Stelle, avuti i risultati
delle primarie on-line, li ha corretti e chiusi in un cassetto, e annunciando
di persona i nomi dei suoi candidati, ha tacitato bruscamente le proteste che
venivano dal territorio e da quelli che tuttora credono che a decidere su tutto
sia la base pentastellata, e «uno vale uno» sia rimasta la regola principale di
M5S.
Ai nastri di partenza della campagna
elettorale, e ormai a un solo mese dal voto del 4 marzo, si è così
materializzato un estremo paradosso: Berlusconi, per stanchezza e insieme per
astuzia, si prepara ad abbandonare il meccanismo autoritario del «partito
personale», cucendosi addosso il personaggio del nonnetto che volentieri si
sarebbe ritirato, ma deve tornare in campo per salvare il Paese. Mentre l’erede
della tradizione novecentesca dei partiti di massa - Renzi -, e quello della neonata
finta democrazia telematica - Di Maio -, da sponde opposte confluiscono sull’ex
modello berlusconiano, che gli elettori hanno già mostrato di rifiutare con la
crescente e larghissima astensione dalle urne.
A questo punto l’Italia non potrà che apparire
di nuovo come un Paese anomalo. Altrove, infatti, dalla Spagna alla Francia
alla Germania, per citare i grandi Paesi dove s’è votato da poco, sono stati i
partiti di governo a battersi anche a costi politici notevoli contro l’insidia
dei movimenti populisti antieuropei. Qui a difendere l’Europa e le sue regole,
severe quante necessarie, alla fine resteranno il vecchio Silvio e il paziente
e prudente Gentiloni.
Marcello Sorgi, La Stampa (28/1/2018)