Se volessi scrivere su questo giorrnale «Ti odio perché (a scelta) sei nero, sei donna, sei gay o lesbica, sei musulmano, o semplicemente perché così capita», non potrei farlo. Ci sarebbe la mia firma sotto, e comunque il direttore responsabile del giornale stesso non lo consentirebbe. E in ogni caso ci sarebbe la tracciabilità. Per cui, si potrebbe risalire a me. E quindi ne pagherei le conseguenze. Se invece vo- lessi fare la stessa cosa sul web, ciò non avverrebbe. Potrei tranquillamente aggredire verbalmente qualcuno o insultarlo senza potere essere rintracciato o preventivamente censurato. Bene ha fatto dunque il Presidente Mattarella a stigmatizzare l’odio e le violenza diffuse in rete a piene mani.
Ma quando qualcosa succede –direbbe Monsieur de Lapalisse- vuol dire che c’è una ragione. E qui la ragione è abbastanza evidente: tutti noi liberali e democratici come siamo non amiamo la repressione e la censura. La libertà di esprimersi a piacimento, quello che in inglese si chiama "free speech”, è un pilastro delle moderne società liberali. Proprio per questo negli Usa tale libertà è protetta dal Primo Emendamento, con una clausola che mutatis mutandis è presente in tutti gli ordinamenti dell’Occidente. Meglio che un nazista o un pornografo si esprimano liberamente –si dice- che appellarsi alla censura. Plausibile? Credo di sì. Ma nel tempo è cambiato qualcosa. Nel passato, chi aggrediva o insultava era di solito rintracciabile e comunque responsabile d quello che aveva fatto. Nel mondo del web, invece, non è più così. Puoi tirare il colpo, senza lasciare segno alcuno. In al- tre parole, sei libero senza essere responsabile. E in questa congiunzione c’è una sorta di contraddizione implicita. Come non ci sono diritti senza doveri, così non può sussistere libertà senza parallela responsabilità.
Sebastiano Maffettone, Il Messaggero (2/1/2017)
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