Dei quattro dipendenti italiani
dell’impresa Bonatti, rapiti in Libia nel luglio del 2015, due sono riusciti a
salvarsi, gli altri due sono stati uccisi.
Angosciosi giorni di
attesa per le famiglie coinvolte. La
massima tragedia ha coinvolto i parenti di Fausto Piano e Salvatore Failla. Gli
altri due tecnici rapiti, Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, sono vivi e
liberi.
Dubbi sul quadro globale
e l’Italia potrebbe muoversi con un suo contingente militare per intervenire in Libia. Ieri sul Sole 24 Ore,
Roberto Bongiorni ha descritto la situazione del territorio Libico nel quale
attualmente sono presenti due governi e
una galassia di tribù da disarmare: “Duecentomila combattenti, divisi in 230 milizie; 140
tribù, sparse su quello che per estensione è il quarto paese dell’Africa; due
governi rivali, che si contendono il potere e non di rado si fanno la guerra.
Una produzione petrolifera crollata a un quinto rispetto ai livelli precedenti
la rivoluzione. Sono sufficienti pochi numeri per comprendere quanto la
missione internazionale per stabilizzare la Libia appaia complessa e
problematica ancor prima di venire alla luce”.
È necessario
riuscire a fare ordine fra le diverse milizie: “Il loro disarmo – la priorità
di tutti i governi che si sono succeduti dopo la morte di Gheddafi – non è
mai avvenuto. La Libia è divenuta così un Paese sommerso di armi, dove sono le
milizie a controllare buona parte del territorio. Le più importanti sono
sostanzialmente cinque”. (…) “Negli ultimi mesi, se non settimane il numero dei
jihadisti leali all’Isis sarebbe quasi raddoppiato passando da 3.500 a 6mila uomini.
La roccaforte dei jihadisti è ora Sirte. Approfittando del vuoto di potere, i
jihadisti sono riusciti a controllare almeno 150 km della costa libica oltre ad
insediarsi in alcune città della costa occidentale”.
L’eventuale
missione italiana in Libia si presenta davvero come un problema complesso e dai
risvolti drammaticamente incommensurabili proprio perché, come sottolinea il giornalista,
ci troviamo di fronte a un paese “precipitato nel caos, dove le diverse anime
parlano lingue diverse, sposano ideologie diverse ed hanno obiettivi
diversi. Ma due cose in comune. Hanno tutte molte armi. E vogliono conservare,
se non accrescere, la loro fetta di potere”.
Canzone del giorno: The Fuse (1976) - Jackson Brown
Clicca e ascolta: The Fuse....
Duecentomila combattenti, divisi in 230
milizie; 140 tribù, sparse su quello che per estensione è il quarto paese dell’Africa; due governirivali, che si
contendono il potere e non di rado si fanno la guerra. Una produzione
petrolifera crollata a un quinto rispetto ai livelli precedenti la rivoluzione.
Sono sufficienti pochi numeri per comprendere quanto la missione internazionale
per stabilizzare la Libia appaia complessa e problematica ancor prima di venire
alla luce.
Il problema più urgente è la formazione di quel governo di unità nazionale che tuttavia continua ad essere rinviato. I Paesi occidentali disponibili a partecipare alla missione sono stati chiari, e ragionevoli: per agire occorre prima una richiesta da un governo legittimo e sovrano. Se non si percorresse questa strada si rischierebbe di generare altri conflitti. Se si aiutasse il Governo di Tobruk,ilGoverno parallelo di Tripoli reagirebbe con rabbia. Potrebbe perfino avvicinarsi all’Isis che oggi combatte.
Meglio, dunque, che prima si mettano d’accordo. E che cerchino di fare ordine tra le diverse milizie. Il loro disarmo – la priorità di tutti igoverni che si sono succeduti dopo la morte di Gheddafi – non è mai avvenuto. La Libia è divenuta così un Paese sommerso di armi, dove sono le milizie a controllare buona parte del territorio. Le più importanti sono sostanzialmente cinque. In Tripolitania si trovano gli Zintani, le brigate di Misurata, il Fajr Libya (Alba libica). In Cirenaica la Brigata dei Martiri del 17 Febbraio e la milizia – definita esercito da Tobruk – del generale Khalifa Haftar.
Gli agguerriti Zintani, alleati di Haftar, contano su 4-5mila combattenti armati fino ai denti. La milizia di Misurata, di tendenza islamista, e che fa parte di Fajr Libya, è in guerra con gli Zintan. Anch’essa conta qualche migliaio di uomini. Alba libica, vicina ai Fratelli musulmani, è invece un’organizzazione ombrello sotto cui si trovano, al soldo del governo parallelo di Tripoli, numerose milizie. Alcune di loro son legate all’universo salafita. Spostandosi in Cirenaica, anche la Brigata dei Martiri del 17 Febbraio appartiene all’universo di tendenza islamica. Conta qualche migliaio di uomini e possiede un temibile arsenale. Ma la forza maggiore in questa regione, e probabilmente in tutta la Libia, è la milizia del generale Haftar; la maggior parte dei suoi 35mila uomini sono ex soldati dell’esercito gheddafiano. Il generale amico dell’Egitto combatte sostanzialmente due guerre; una contro l’Isis e i gruppi qaedisti, e un’altra contro le forze del governo di Tripoli. A queste si devono aggiungere gli agguerriti gruppi salafiti vicini ad al-Qaeda o all’Isis. Il più importante è Ansar al-Sharia (nella lista delle organizzazioni terroristiche), attiva soprattutto a Bengasi, anche se Haftar le ha strappato quasi tutti i quartieri. Da tempo una buona parte di questa organizzazione ha sposato la causa dell’Isis.
Arriviamo al sempre più temibile Stato islamico della Libia. Negli ultimi mesi, se non settimane il numero dei jihadisti leali all’Isissarebbe quasi raddoppiato passando da 3.500 a 6mila uomini. La roccaforte dei jihadisti è ora Sirte. Approfittando del vuoto di potere, i jihadisti sono riusciti a controllare almeno 150 km della costa libica oltre ad insediarsi in alcune città della costa occidentale. Come a Sabrata, dove hanno creato campi di addestramento, o Zuwara. In queste località costiere lo Stato islamico ha creato alleanze con frange delle tribù locali dedite alla criminalità organizzata che tollerano la sua presenza e in alcuni casi gestiscono insieme lucrosi traffici, tra cui la tratta di esseri umani e il contrabbando di armi. Infine il Fezzan, la regione desertica meridionale, la terra di nessuno. Qui comandano le diverse e volubili tribù. Allergiche ad alleanze durature, si ergono a protettori dei giacimenti, chiedendo denaro in cambio, e impongono pesanti balzelli sul traffico di clandestini che arrivano dal Sahel.
Un Paese, dunque, precipitato nel caos, dove le diverse anime parlano lingue diverse, sposano ideologie diverse ed hanno obiettivi diversi. Ma due cose in comune. Hanno tutte molte armi. E vogliono conservare, se non accrescere, la loro fetta di potere.
Il problema più urgente è la formazione di quel governo di unità nazionale che tuttavia continua ad essere rinviato. I Paesi occidentali disponibili a partecipare alla missione sono stati chiari, e ragionevoli: per agire occorre prima una richiesta da un governo legittimo e sovrano. Se non si percorresse questa strada si rischierebbe di generare altri conflitti. Se si aiutasse il Governo di Tobruk,ilGoverno parallelo di Tripoli reagirebbe con rabbia. Potrebbe perfino avvicinarsi all’Isis che oggi combatte.
Meglio, dunque, che prima si mettano d’accordo. E che cerchino di fare ordine tra le diverse milizie. Il loro disarmo – la priorità di tutti igoverni che si sono succeduti dopo la morte di Gheddafi – non è mai avvenuto. La Libia è divenuta così un Paese sommerso di armi, dove sono le milizie a controllare buona parte del territorio. Le più importanti sono sostanzialmente cinque. In Tripolitania si trovano gli Zintani, le brigate di Misurata, il Fajr Libya (Alba libica). In Cirenaica la Brigata dei Martiri del 17 Febbraio e la milizia – definita esercito da Tobruk – del generale Khalifa Haftar.
Gli agguerriti Zintani, alleati di Haftar, contano su 4-5mila combattenti armati fino ai denti. La milizia di Misurata, di tendenza islamista, e che fa parte di Fajr Libya, è in guerra con gli Zintan. Anch’essa conta qualche migliaio di uomini. Alba libica, vicina ai Fratelli musulmani, è invece un’organizzazione ombrello sotto cui si trovano, al soldo del governo parallelo di Tripoli, numerose milizie. Alcune di loro son legate all’universo salafita. Spostandosi in Cirenaica, anche la Brigata dei Martiri del 17 Febbraio appartiene all’universo di tendenza islamica. Conta qualche migliaio di uomini e possiede un temibile arsenale. Ma la forza maggiore in questa regione, e probabilmente in tutta la Libia, è la milizia del generale Haftar; la maggior parte dei suoi 35mila uomini sono ex soldati dell’esercito gheddafiano. Il generale amico dell’Egitto combatte sostanzialmente due guerre; una contro l’Isis e i gruppi qaedisti, e un’altra contro le forze del governo di Tripoli. A queste si devono aggiungere gli agguerriti gruppi salafiti vicini ad al-Qaeda o all’Isis. Il più importante è Ansar al-Sharia (nella lista delle organizzazioni terroristiche), attiva soprattutto a Bengasi, anche se Haftar le ha strappato quasi tutti i quartieri. Da tempo una buona parte di questa organizzazione ha sposato la causa dell’Isis.
Arriviamo al sempre più temibile Stato islamico della Libia. Negli ultimi mesi, se non settimane il numero dei jihadisti leali all’Isissarebbe quasi raddoppiato passando da 3.500 a 6mila uomini. La roccaforte dei jihadisti è ora Sirte. Approfittando del vuoto di potere, i jihadisti sono riusciti a controllare almeno 150 km della costa libica oltre ad insediarsi in alcune città della costa occidentale. Come a Sabrata, dove hanno creato campi di addestramento, o Zuwara. In queste località costiere lo Stato islamico ha creato alleanze con frange delle tribù locali dedite alla criminalità organizzata che tollerano la sua presenza e in alcuni casi gestiscono insieme lucrosi traffici, tra cui la tratta di esseri umani e il contrabbando di armi. Infine il Fezzan, la regione desertica meridionale, la terra di nessuno. Qui comandano le diverse e volubili tribù. Allergiche ad alleanze durature, si ergono a protettori dei giacimenti, chiedendo denaro in cambio, e impongono pesanti balzelli sul traffico di clandestini che arrivano dal Sahel.
Un Paese, dunque, precipitato nel caos, dove le diverse anime parlano lingue diverse, sposano ideologie diverse ed hanno obiettivi diversi. Ma due cose in comune. Hanno tutte molte armi. E vogliono conservare, se non accrescere, la loro fetta di potere.
Roberto Bongiorni