"Ne ho una tascata piena, scottanti. Anche attraverso la stoffa della giacca mi bruciano il fianco, mi scaldano il costato. Metto una mano in tasca, ne prendo una, mi scotto, resisto, prendo a scartocciarla senza nemmeno stare a guardare, non voglio inciampare andando per la mia strada. E poi non c’è bisogno di vedere, le mie dita lo sanno a memoria quando è pronta e pulita, quando la buccia corrusca e rovente si è fatta tiepida, liscia, morbidità. Non devo nemmeno vedere le mani per sapere che le dita sono nere di fuliggine di carbonella, e non devo nemmeno farmi scrupolo di ficcarmi le dita in bocca, la fuliggine dà quel tocco amarognolo che ci dice. Questa è proprio cotta come si deve, e dolce più delle altre. Non ce n’è mai una uguale, non ci si annoia mai a mangiarne anche cento. A farsi venire una pancia così, che poi a fare la cacca ci si mette una settimana. Neanche avessi ancora quattro anni, e non ci fosse niente di più buono al mondo che ho messo in bocca di lì in poi, e di là ci fosse mia nonna con la padella di ghisa ereditata da sua nonna. Mia nonna che mesta e rimesta nella padella e canta: Son frutto gustoso ho il riccio spinoso. La buccia ho moretta son dolce e duretta. Se in acqua son cotta mi chiamo ballotta: se al fuoco son posta io son caldarrosta. Io vivo in montagna e mi chiamo... Oh, lo so come si chiama, nonna. Quel segaiolo di Proust la chiamava madeleine, qui tra di noi eredi della miseria è sempre la castagna".
Maurizio Maggiani, Vivario, Il Fatto Quotidiano del 4/11/2013
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